Il Messaggero, 26 marzo 2022
Raoul Bova parla di Don Matteo
Per vederlo con l’abito da prete bisognerà aspettare il 28 aprile, quando andrà in onda la fatidica quinta puntata della tredicesima stagione di Don Matteo, la storica fiction Lux Vide in partenza giovedì prossimo in prima serata su Rai1. Dopo 22 anni, il parroco in bicicletta interpretato dall’82enne Terence Hill passerà la staffetta al parroco centauro del 50enne Raoul Bova, Don Massimo, che prenderà il suo posto nella seconda metà dei dieci episodi previsti sull’ammiraglia Rai.
Don Massimo: perché questo nome?
«Non l’ho scelto io, ma penso che renda bene il personaggio e il suo carattere, più forte e giovanile, dalla fede contrastata. Don Massimo non ha ancora tutte le risposte alle domande. Terence, invece, era sulla via della santità».
Che le ha detto di saggio?
«Trova la tua identità, sarai accolto. Mi ha detto di sentirmi libero da tutto quello che rappresentava il suo Don Matteo, di metterci il mio cuore e la mia verità».
Chi è Don Massimo?
«Un uomo dal passato duro. Una persona che lottava contro le ingiustizie, che a un certo punto si è trovata di fronte alla morte e ha cercato risposte nella fede. Rispetto a Don Matteo manipola meglio la tecnologia: le parti investigative saranno spesso risolte grazie alle sue capacità. Usa i cellulari, conosce le comunicazioni satellitari».
Che moto guida?
«Una moto assemblata, consumata, vissuta. Un po’ come lui. Ho dovuto imparare a guidarla, non mi piace far fare le mie scene alle controfigure, anche se a volte per motivi assicurativi è necessario».
Perché, Don Massimo è spericolato?
«No, non fa cose acrobatiche. Ma la prima scena in cui lo vedrete sarà una sequenza d’azione in piena regola, girata egregiamente, con uno sforzo produttivo enorme».
Fare il prete non significa appendere al chiodo il sex appeal?
«Dipende. Il sex appeal lo appendi quando non ce l’hai più. Non è l’abito che fa la differenza. E comunque sono importanti anche altre cose. È un personaggio che mi ha fatto crescere da tanti punti di vista».
E la sua compagna (Rocio Munoz Morales, ndr) che dice?
«Rimaneva un po’ così, quando mi dimenticavo di levare la croce di legno dal collo».
Resta solo una stagione o la sua è una vocazione autentica?
«La vita ci ha insegnato ad andare avanti giorno per giorno. Vediamo. Sono contento di aver trovato Don Massimo in un periodo in cui anche io, vista l’età, mi facevo certe domande: come dare il mio contributo alla vita, come lasciare un mondo migliore ai miei figli. E mi è capitato Don Matteo, una di quelle serie che oggi è importante vedere».
Senza retorica: perché?
«Perché dà speranza, fa venire voglia di credere che ci sia gente per bene e che alla fine vinca il buon senso e il perdono. Basta con l’elogio al male, all’odio e alla criminalità. Pensiamo a un mondo di pace. Siamo in guerra, non è retorica».
Don Matteo è buonista?
«Vivaddio. Che sia buonista, e non guerrigliero. Chi se ne frega. Viva il buonismo».
Si è preparato al ruolo parlando con i parroci?
«Ho chiesto delle consulenze. I parroci sono importantissimi punti di riferimento per la gente comune. Ad Haiti ho visto i preti fare un lavoro inestimabile».
Lei è credente?
«Si, ho una fede francescana. Metto in dubbio, domando. Era importante che il personaggio mi somigliasse in questo. Don Massimo è un prete che prende anche degli abbagli, è fallibile, umano».
Ci si vede a dare il nome alla serie?
«Il problema è dei produttori, io non me lo pongo. La serie si è chiamata così per tanti anni, per me anche se restasse per sempre Don Matteo andrebbe bene. Anzi, sarebbe un onore».