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 2022  marzo 26 Sabato calendario

La grandezza di Donatello

FIRENZE Atre anni dalla memorabile Verrocchio, il maestro di Leonardo, la collaudata intesa tra la Fondazione Palazzo Strozzi e il Bargello ci regala con Donatello, il Rinascimento a cura di Francesco Caglioti: un’altra esposizione irripetibile, come la definisce giustamente Arturo Galansino, che ha ideato con Paola D’Agostino, entrambe le rassegne, non senza il lodevole intento di correggere il trend che da sempre penalizza la “fortuna” della scultura, rispetto a quella della pittura. Nelle due sedi di Palazzo Strozzi e del Bargello, la mostra ricostruisce la lunga e prolifica carriera di Donato di Niccolò Bardi, detto Donatello (1386-1466), con 130 opere, tra cui anche mirati confronti con i grandi pittori coevi, come Masaccio, Mantegna e Giovanni Bellini o successivi, come Raffaello, Leonardo, Pontormo e Bronzino, che ne attestano l’enorme influenza anche postuma. Articolato in 14 sezioni – dieci in Palazzo Strozzi, quattro al Bargello – il percorso si apre con una folgorante sezione composta da solo tre opere: il David in marmo del Bargello e il Crocifisso ligneo, proveniente da Santa Croce, del giovane Donatello, e il Crocifisso, da Santa Maria Novella, di Filippo Brunelleschi, che aveva quasi dieci anni di più e lo iniziò alla prospettiva e allo studio dell’antico, formando con lui quel sodalizio tra due immensi ma diversi talenti, che non s’interruppe mai perché alimentato dal fertile stimolo di una reciproca emulazione. L’allestimento ci propone accortamente prima il David, che nel gesto insolente della mano sinistra sul fianco, espressione emblematica del trionfatore, e nella torsione ancora gotica della postura, compendia l’acerbità di Donato alla sua prima impegnativa prova pubblica d’intaglio in marmo e la sfrontatezza con cui irrompeva sulla competitiva ribalta della Firenze di primo ’400. Dietro al David, sulla parete di fondo, il confronto “da manuale” dei due crocifissi, in cui il noto aneddoto riportato da Vasari sul rimprovero di Brunelleschi all’amico per «aver messo in croce un contadino» è rivelatore tanto della feconda dialettica tra i due, quanto della loro diversa, se non opposta, concezione estetica, con il più giovane, ancora impregnato di umori gotici, che sottolinea i gonfiori e le deformazioni di un corpo che, morente, grava inerte verso il basso, mentre il più anziano, pur mantenendosi aderente al “vero”, sottopone la figura del Cristo a un ferreo controllo geometrico- proporzionale, che ne eleva la condizione umana all’eroica compostezza di un dio sceso in terra. Il percorso mostra poi come nei primi due decenni, Donato e Filippo rilancino l’argilla come materiale per plasmare figure di ogni formato per riprodurre serialmente, ad uso di culto domestico, anconette o mezzi busti in terracotta dipinta di Madonne in affettuoso o malinconico dialogo con il Figlio. Opportunità, questa, sfruttata a fondo proprio da Donato, in varianti traducibili anche nel nobile marmo. Parallelamente egli sbaragliava la concorrenza nel più prestigioso settore della scultura: la statuaria pubblica di grandi dimensioni. ll San Pietro, il San Marco, e l’aitante San Giorgio vanno a occupare le rispettive nicchie di Orsanmichele, mentre il San Giovanni Evangelista è destinato alla facciata del Duomo e i sei Profeti al campanile giottesco. Brunelleschi aveva perfezionato la prospettiva sulla base delle leggi dell’ottica, della matematica e della geometria proiettiva, Donato la traduce genialmente nello stiacciato, che ne mima l’illusività con una progressiva diminuzione della sporgenza del rilievo, ma senza il rigore di Filippo, perché, più che l’inganno ottico, ha a cuore l’impatto emotivo che le sue figure e le sue storie trasmettono a chi guarda. Di qui la disinvoltura con cui in certe Madonne tralascia di precisare il rapporto dei piani tra il corpo della Vergine e il davanzale di una finestra per dare a chi osserva l’impressione di cogliere di sorpresa l’abbraccio tra Madre e Figlio. O la labirintica spazialità della lastra di bronzo con il Convito di Erode, in cui Donato usa lo spazio come vettore temporale, incastrando l’una dentro l’altra, la sala del banchetto, le scale e la prigione, per condensare in vertiginosa sintesi la sequenza del martirio del Battista, pilotando a ritroso il nostro sguardo dal basso, dove lo scudiero porge al tiranno inorridito il macabro trofeo, per poi risucchiarci su, fino alla soglia della cella, dove il boia consegna la testa da recapitare. Formatosi da giovane come orafo alla scuola del Ghiberti, Donato non era un tecnicamente accurato come il maestro, anche perché privilegiava l’effetto sullo spettatore. Di qui colossi in bronzo come il San Ludovico, che sono composti da più pezzi montati insieme su un invisibile traliccio, o il magnifico Reliquiario di San Rossore, fuso in più pezzi, ma che è una pietra miliare nella storia dell’oreficeria e della scultura: è il primo reliquiario antropomorfo in bronzo (laminato in oro) e inaugura il busto ritratto rinascimentale, perché Donato ha conferito al martire un’effigie così “vera” da farcela sembrare “viva”. Dall’ Amore- Attis del Bargello agli Spiritelli di Siena e quelli del Jacquemart- André, nati per la Cantoria di Luca della Robbia in Duomo, agli straordinari battenti in bronzo delle due porte della Sagrestia vecchia di San Lorenzo, che esibiscono lo spiritato dinamismo espressivo infuso da Donatello alle figure di martiri e apostoli, incorrendo nella riprovazione del classicista Alberti, ma annunciano l’estremo azzardo visionario dei suoi pulpiti della basilica, il percorso tocca i suoi vertici con i prestiti eccezionali dalla basilica del Santo e da Ferrara, che testimoniano gli undici anni passati a Padova dal maestro del Gattamelata a cavallo e dell’incompiuto Monumento equestre di Re Alfonso per Napoli, attestato qui nella Sezione 11, dall’impressionante Protome Carafa, colossale testa equina riportata in auge da Caglioti. Mi resta, in chiusura, un accenno alle sezioni del Bargello dove, nel Salone eponimo troviamo, strategicamente inquadrate dall’allestimento, le opere identitarie del nesso Donatello/Bargello, il San Giorgio, il Marzocco, il Davide in bronzo, con la sua posa prassitelica e il curioso pètaso che ne nascondeva lo sguardo, fino a quando Caglioti non spiegò che era montato su un alto piedistallo da cui guatava lo spettatore in basso, intimidito, con l’orgoglio del trionfatore che calpesta la sua preda. Una postura che sviluppa fluidamente le potenzialità dell’acerbo hanchement del David giovanile in marmo, consegnandole a Michelangelo, che ne trarrà le dovute conseguenze, con la doppia torsione serpentinata, destinata a diventare la cifra della maniera internazionale. Perché, come asseriva Vincenzo Borghini: «o lo spirito di Donato opera nel Buonarroto o quello del Buonarroto antecipa di operare in Donato». E accortamente, Paola D’Agostino chiude l’ultima sezione del Bargello, Donatello allo specchio della Maniera moderna, con un prestito da Casa Buonarroti: l’ultradonatelliana Madonna della scala