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 2022  marzo 26 Sabato calendario

Parla un’amante di Salinger

Il 23 aprile 1972 Joyce Maynard ha diciotto anni e frequenta Yale. Quella mattina sul New York Times Magazine esce un suo lungo pezzo intitolato “An 18-Year-Old Looks Back on Life”. Nei giorni seguenti viene inondata da lettere (ammiratori, cascamorti, genitori infuriati, ma anche produttori, editor e editori, fotografi: tutti vogliono qualcosa da lei). Tra queste c’è quella di J. D. Salinger, allora cinquantatreenne. Si complimenta per la qualità dell’articolo e la mette in guardia sulle insidie del successo. «La scrittura deve maturare nella quiete», le dice. A quella lettera segue una corrispondenza serrata, fino a quando Maynard non va a vivere da lui, nell’inavvicinabile fortino di Cornish, New Hampshire, dove Salinger si è autorecluso all’insegna di yoga, omeopatia, alimentazione controllata e precetti zen. La loro storia d’amore si interrompe bruscamente e con opprimenti strascichi. Maynard tiene tutto dentro per 25 anni, fino al 1998, quando esce il suo memoir At Home in the World dove con oggettività siderale vuota il sacco, tracciando un inquietante dietro le quinte del grande scrittore americano; ad aggravare le cose, secondo i detrattori, c’è la vendita da Sotheby’s di un cospicuo numero di lettere che Salinger le ha scritto durante quell’anno (le ha comprate l’informatico Peter Norton, imprenditore dell’antivirus, per oltre centocinquantamila dollari e le ha restituite a Salinger). Il libro viene definito «vergognoso», e una specie di anatema si abbatte sulla scrittrice. Fanno scalpore le parole di Cynthia Ozick: «Vuole solo succhiare un po’ della sua celebrità». Joyce Maynard ha scritto diciassette libri, e da due di questi lavori sono stati tratti film di successo. L’albero della nostra vita (appena uscito per Nn, tradotto da Silvia Castoldi) è il suo romanzo più ambizioso, la storia di una donna che si interroga su cosa vuol dire perdonare. Ora Maynard si divide tra scrittura e insegnamento («la fine arte di raccontare sé stessi»). In questi giorni si trova in Guatemala, nella sua casa sul lago Atitlán. Quando ci colleghiamo su Zoom da lei sono le cinque del mattino e un gruppo di aironi si è appena posato a pochi metri dalla sua terrazza. C’è come un peccato originale nella sua carriera, e risale a quando, già famosa, ha intaccato il mito di J. D. Salinger. «Sono orgogliosa di aver scritto At Home in the World, ho protetto quella storia per troppo tempo. Ero piena di paure. Il coraggio mi è venuto quando mia figlia ha compiuto 18 anni. Ho sentito che era giunto il momento». È stata una liberazione quindi? «Sì, ma è difficile descrivere a che razza di condanna sono andata incontro. Penso che tutti i libri appartengano a un tempo preciso. Non avrei mai potuto scrivere L’albero della nostra vita a 35 anni, e forse nemmeno a 55. È la storia di una donna che ha sentito il passare degli anni sulla propria pelle e guarda tutto da quella prospettiva. Le cose cambiano e i miei lettori sono giovani, non hanno ancora una loro idea sul matrimonio, sull’innamorarsi, sul divorzio e sull’essere genitori». Mi ha colpito la potenza di certi passaggi. Ho l’impressione che questo non sia solo un romanzo. «Sì, ci sono elementi di memoir. Le persone che mi conoscono identificano parecchi aspetti della mia storia vera. Per molti anni, dal 1984 al 1990, ho tenuto sul New York Times una rubrica settimanale (“Domestic Affairs”) in cui scrivevo dei miei figli, della fattoria dove sono cresciuti, del mio matrimonio. Alcune delle storie che ho raccontato nei miei romanzi le avevo già elaborate lì. Per esempio quando ho gettato nel lavandino la torta natalizia Bûche de Noël o quando ho rivoltato casa per cercare una scarpetta di Barbie che mia figlia aveva perso durante la festa del suo settimo compleanno. È normale usare pezzi di vita, spesso in modo trasversale. Ci sono finite le mie ossessioni – la casa, la famiglia, e quest’ultima deriva dal non avere avuto una famiglia che mi ha fatta sentire al sicuro. Proprio come Eleanor, a nemmeno vent’anni, con i soldi del mio primo libro ho comprato una casa nel New Hampshire. Ho sposato anch’io un artista, e ho avuto anch’io tre figli. Ho usato una situazione simile, ma con uno sviluppo diverso. Nessuno dei miei figli ha avuto un incidente così grave, né ha cambiato sesso (è successo però a un loro amico)». Qual è la parte più intima del romanzo? «Ho ragionato intorno alle emozioni che hanno scosso la mia vita: la rabbia e l’amarezza, l’incapacità di perdonare. Scrivere questo libro mi ha fatto guadagnare una nuova prospettiva sulla tragedia del divorzio. La tragedia di distruggere una famiglia». Quando sente che una storia può diventare un libro e come sceglie in che forma scriverlo? «Voglio essere sincera. Dopo che è stato pubblicato At Home in the World la mia carriera era compromessa. Vennero cancellati gli inviti agli eventi letterari. Quando salivo su un palco con altri scrittori qualcuno se ne andava, parte del pubblico disapprovava. Improvvisamente mi sono ritrovata senza un editore, senza un agente. Avevo una famiglia da mantenere. Non sapevo cosa fare e così con Internal Combustion mi sono inventata una nuova identità di scrittrice. Sulla scia di A sangue freddo ho cercato un delitto di cronaca che contenesse tutti gli elementi che mi interessano di solito (relazioni familiari, divorzi), e di cui in quel momento si stava celebrando il processo. Ho usato il crime per esplorare le mie ossessioni». Se la guardiamo dall’alto, la sua è una carriera di successi. Perché pensa che ci sia questa specie di blocco nei suoi confronti? Dipende tutto dalla faccenda Salinger? «Sì, temo di sì. Dico subito che non ho di questi problemi in Europa. Salinger occupa un posto molto particolare nella letteratura americana. Le cose stanno cambiando negli ultimi tempi. Per anni tantissimi lettori, specialmente uomini giovani, si sono attaccati a Il giovane Holden nel passaggio cruciale della loro crescita – un periodo di massima vulnerabilità. Non dimentichiamo che Mark Chapman aveva con sé quel libro quando ha sparato a John Lennon. Con At Home in the World è come se avessi strappato Holden dalle mani dell’America e l’avessi fatto a pezzi. Io volevo solo raccontare la mia storia. Se cerca il mio nome su Google ormai io sono quella cosa lì, c’è sempre Salinger di mezzo; quando morirò i necrologi diranno: “Andò a letto con Salinger”». So che lei di recente è tornata a parlarne su Vanity Fair. «Sì, ho scritto un pezzo legato alla vicenda di Woody Allen, un documentario su Woody Allen e Mia Farrow su Hbo. Ho sentito la necessità di dire ancora qualcosa su Salinger». Una sua scelta quindi? «Sì, e sono molto contenta di averlo fatto perché ciò che è successo a me continua a succedere a tante ragazze». Un #MeToo molto prima del #MeToo? «Sì. In At Home in the World ho cercato di raccontare i fatti in modo scrupoloso, senza essere sentenziosa e senza fare interpretazioni. Volevo condividere quello che era successo – dal mio punto di vista. Se Salinger avesse scritto un libro su questi fatti avrebbe raccontato una storia del tutto diversa. Nel libro non l’ho mai giudicato, non ho mai detto che ha avuto un modo di fare predatorio. Volevo solo che il lettore traesse le sue conclusioni». Crede che Salinger fosse sincero quando le diceva che era una scrittrice di talento? «Non ne sono convinta. Ho ricevuto lettere da una ventina di donne che intrattenevano una corrispondenza con Salinger. Avevano tutte un aspetto tipo il mio, erano tutte fragili e vulnerabili. Erano tutte maggiorenni, questo sì, ma sembravano più giovani – anch’io sembravo più giovane. La maggior parte veniva da famiglie con un padre assente. Credo che Salinger abbia carpito soprattutto questo. Nel mio caso lui ha identificato una ragazza fragile e vulnerabile e posso dire che aveva un’abilità straordinaria nel farlo. Certo, avrà anche visto del talento di scrittura, era una persona che sapeva il fatto suo in termini di linguaggio, ma se fossi stata una ragazzetta lentigginosa dai capelli rossi e un po’ grassoccia che giocava a softball e veniva da una famiglia benestante e felice dell’Indiana non credo mi avrebbe scritto. La verità è che non credeva possibile che sarei diventata una scrittrice».