la Repubblica, 26 marzo 2022
Acquisti comuni, ma divisi sul prezzo del gas
BRUXELLES – A un certo punto del Consiglio europeo più infuocato degli ultimi mesi, Pedro Sanchez si ritrova tra le mani un tweet di un giornalista. C’è scritto che il premier spagnolo ha congelato il Consiglio europeo, minacciato il veto sull’energia e sta costringendo il summit al fallimento. Sospetta che la fonte sia francese, giudica la pressione indebita. Si infuria. «È inaccettabile, così non posso partecipare!». Si alza dal tavolo. Si avvia verso l’uscita del salone. Il presidente Charles Michel quasi lo insegue per placarlo. Il vertice è in stallo. È l’inizio della contesa di Bruxelles. Durerà dieci ore. Finisce con Spagna e Portogallo che ottengono l’“eccezione iberica” che consentirà loro di fissare un tetto nazionale al prezzo del gas. E con Mario Draghi soddisfatto a metà. Il premier porta a casa acquisti e stoccaggi comuni del gas – non è poco, li reclamava da mesi – ma non ottiene più dell’impegno scritto della Commissione europea a presentare entro maggio un ventaglio di opzioni che esplorino «if and how» – se e come – si possa fissare un limite europeo al prezzo dell’energia. La Germania, a sera, fa sapere che difficilmente si farà. «Sono scettico», sentenzia Olaf Scholz. La battaglia di Sanchez era annunciata. Lo spagnolo non può accettare che il caro energia paralizzi un Paese, bloccato dalle proteste degli autotrasportatori e dalla rivolta del settore della pesca. Ai leader europei chiede due cose: di fissare un tetto continentale al prezzo del gas e slegare il mercato elettrico dal prezzo del metano, perché è quest’ultimo che provoca l’impennata delle bollette. Sanchez si scontra però con un muro. I tedeschi e i falchi del Nord, guidati dall’Olanda. Sostengono che il mercato non può essere regolamentato, domandano: che cosa succede se i produttori non accettano il “price cap”? La reazione è durissima. Di fatto minaccia il veto. Il summit viene sospeso per un’ora. Poi riprende. Il premier spagnolo rilancia: assieme al Portogallo, chiede una “deroga iberica” per fissare il tetto soltanto in patria. Giustificano la richiesta ricordando che Madrid e Lisbona non sono interconnesse sul fronte energetico con il resto d’Europa, grazie alle rinnovabili, e dunque non “disturbano” il mercato. L’eccezione è un successo per i due Paesi. L’Italia, a quel punto, si ritrova in difficoltà. Aprirà due nuovi rigassificatori, entro due settimane presenterà un piano di diversificazione energetica dettagliato. L’obiettivo di liberarsi «rapidamente» del 30-50% della dipendenza dal gas russo non rassicura abbastanza. Serve il “price cap”, che però il Cancelliere tedesco non vuole veder menzionato nelle conclusioni. Draghi sul punto non molla, il Consiglio si prolunga ancora. Roma ha bisogno di questa svolta, perché i contratti di breve durata sull’energia espongono Roma a grosse oscillazioni nei prezzi. Berlino, invece, ha contratti lunghi e vantaggiosi. Frena anche la lobby delle società petrolifere che vendono il gas norvegese, come sostiene l’ex banchiere: «Negli ultimi mesi i profitti della Norvegia sono stati 150 miliardi di dollari, per un Paese di 5 milioni di abitanti: questo spiega la loro resistenza». Alla fine, arriva la mediazione: toccherà a Ursula von der Leyen presentare le possibili soluzioni. E questo vale anche per l’altro nodo, cioé la possibilità di slegare il prezzo del mercato elettrico dalle altre fonti energetiche, in modo da calmierare i prezzi. Anche in questo caso, la Commissione verificherà “se e come” intervenire. Il risultato migliore che porta a casa il presidente del Consiglio è insomma l’immediata intesa sugli acquisiti comuni di energia da parte dell’Unione. Saranno obbligati a stoccare il 90% della capienza complessiva nazionale entro ottobre e procederanno con acquisti comuni, anche se tre o quattro Paesi non sfrutteranno questa possibilità. La via diplomatica, intanto, torna a essere parte integrante della posizione italiana, specchio della preoccupazione europea rispetto a un allargamento del conflitto. In questa chiave, Draghi torna per la prima volta a ipotizzare un contatto diretto con Vladimir Putin. L’ultima volta l’opzione pare avesse irritato Washington, il nuovo dialogo con Joe Biden consente la novità: «Ho sentito le parole del Santo Padre, a cui vorrei esprimere la gratitudine mia e del governo. Vorrei ribadire che noi stiamo cercando la pace, io la sto cercando, francesi e tedeschi pure. Hanno avuto, e avrò anche io, colloqui con Putin». Invoca anche la fine delle bombe, chiede a Mosca di evitare la distruzione totale – “la Groznyficazione dell’Ucraina” – prima di sedere al tavolo negoziale. A Roma, però, lo attendono i soliti sentimenti filo-putiniani e ostili agli impegni con la Nato coltivati da una fetta rilevante della sua maggioranza. Stavolta Draghi non ha voglia di assolvere del tutto i silenzi o i distinguo di Berlusconi, Salvini e Conte. Ribadisce quindi che l’impegno di spesa del 2% del Pil per l’Alleanza atlantica non cambierà, e anzi che è garanzia che nel continente «non ci faremo più la guerra». E poi si rivolge ai tre leader: «La politica che vuole la pace e il bene del Paese deve stare unita e seguire gli alleati, che non hanno espresso nessun dubbio sulla nostra tenuta della posizione. Poi questi conti qui si fanno con la coscienza e anche con il proprio elettorato. Ma non ora».