Corriere della Sera, 25 marzo 2022
Dante poeta in guerra
Sono almeno tre le guerre di Dante. Quella raccontata, quella vissuta, quella pensata e teorizzata. In un passo della Commedia il poeta si fa cronista dell’orrore come fosse un inviato di guerra. Scene splatter di cui avverte il lettore, quasi una segnalazione a tutela dei minori che si trovassero nei paraggi. Siamo all’inizio del canto XXVIII dell’Inferno, e quel che vede Dante dal ponte della nona bolgia non è raccontabile. Non c’è scrittore, dice, che possa descrivere adeguatamente le ferite e il sangue che io ho visto in questo luogo: né il linguaggio né la mente sarebbero in grado di contenere uno scenario tanto orripilante, con più feriti e mutilati di quanti ce ne siano stati in tutti i conflitti dell’Italia meridionale dal tempo dei greci. È il «mondo sozzo» dei seminatori di discordia che, per contrappasso, devono percorrere la bolgia monchi e squarciati finché giungono davanti a un diavolo: a quel punto le piaghe si risanano ma è un attimo, perché il diavolo infligge loro un’altra lacerazione, rilanciando lo strazio all’infinito.
Le contingenze belliche attuali potrebbero utilmente suggerire, nel secondo Dantedì, di recuperare un numero monografico delle «Letture classensi», l’annuario dantesco ravennate, che nel 2020 trattava il rapporto dell’Alighieri uomo e poeta con la guerra. Commentando i versi d’apertura appena citati, Alberto Casadei faceva notare come i seminatori di discordia, antichi e contemporanei (da Maometto a Mosca dei Lamberti, responsabile del conflitto tra guelfi e ghibellini a Firenze), siano in realtà una metonimia dei generatori di guerre. Dunque, se fosse lecito il gioco sempre discutibile (ma divertente) dell’attualizzazione, Putin si troverebbe collocato tra questi tristi figuri, magari in compagnia di altri celebri tiranni del Novecento: responsabili di sbudellamenti, di «minugia» penzolanti tra le gambe, di esplosioni di cuori, polmoni, fegati, milze e intestini. Gente che ha sulla coscienza centinaia di migliaia di uomini aperti «dal mento infin dove si trulla», vittime «dilaccate» e «storpiate», proprio come i leader scismatici che all’Inferno devono pagare, specularmente, le loro colpe: la risma di quelli che «fuor vivi, e però sono fessi così».
Nel film-documentario dantesco si vedono nasi mozzati, orecchie tranciate, gole dilaniate e sanguinolente, mani amputate dai cui moncherini sprizza sangue sulle facce dei malcapitati. Lo spettacolo tocca il suo culmine di violenza con il busto decapitato di Bertran de Born, il poeta provenzale colpevole di aver istigato, con le sue poesie, il re d’Inghilterra Enrico III contro suo padre: è lui che regge in mano per i capelli la propria testa quasi fosse la lanterna che gli permette di guardare davanti a sé mentre cammina così decollato.
Non ci risparmia nulla, l’Alighieri reporter nel massacro infernale. Casadei, nello stesso saggio, richiamava opportunamente un’incisione di Francisco Goya, Grande impresa con morti, della serie intitolata Disastri della guerra, che sembra echeggiare la nona bolgia dantesca, in quanto «l’orrore diventa massimo non solo perché i corpi sono lacerati, ma perché sono collocati secondo una disposizione decisa dall’artista, tale da far emergere con inequivocabile evidenza la volontà che ha spinto a smembrarli».
Può anche darsi che Dante questi sventramenti li abbia intravisti sul terreno di battaglia, magari l’11 giugno 1289 a Campaldino, dove è certo che fu coinvolto come feditore guelfo, cioè in qualità di cavaliere della prima schiera, e dove, come scrisse in una lettera andata perduta: «Ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia». In due terzine, all’inizio del XXII dell’Inferno, è ancora Dante a ricordare di essere stato presente a Campaldino («Io vidi già cavalier muover campo…») e altrove evoca il suo contribuito, due mesi dopo, alla resa del castello di Caprona. Se qualcuno avesse riserve sul Dante «uomo d’azione» e combattente vigoroso, si rivolga ad Alessandro Barbero, che ha studiato il suo ruolo attivo nelle battaglie, ipotizzando che il poeta dovette subìre qualche «scavallamento», come la gran parte dei feditori fiorentini, sottoposti, secondo il cronista Giovanni Villani, alla percossa terribile dei nemici che arrivavano lancia in resta.
Ma a parte il gusto di raccontarla e l’impegno nel viverla in prima persona, c’è per Dante una guerra a lungo pensata ed elaborata soprattutto nella Monarchia dove, come avverte Diego Quaglioni, l’espressione «bellum iustum», guerra giusta, non esiste ma esiste il concetto, motivato dal principio dall’autodifesa e dall’idea di un giudizio divino capace di sistemare gli assetti del mondo scegliendo quale popolo prevarrà su tutti i popoli in competizione.
È una fusione di teologia e diritto: «Pace e guerra — scrive Quaglioni — formano insomma un binomio inscindibile, non solo perché concettualmente esse si richiamano a vicenda, ma soprattutto perché la guerra si giustifica solo come mezzo per giungere alla pace, quando ogni altro rimedio si sia rivelato inutile». Se nel Trecento era una tesi coraggiosa, per noi è da qui che nascono i problemi. Fatto sta che nel progetto di una entità sovranazionale, quell’impero auspicato da Dante a garanzia dell’unità e della pace universale, qualcuno ha visto addirittura il presagio per niente utopistico di una Organizzazione delle Nazioni Unite. La prospettiva piacque molto a un pontefice illuminato come Paolo VI, che ne fece l’elogio nel centenario dantesco del 1965. Anche lui sapeva che il «mondo sozzo» non è mai tramontato.