La Stampa, 25 marzo 2022
David Bowie, un alieno a Mosca
«Quando David Bowie e io andammo in Russia non avevamo nessun aiuto e nessuno parlava inglese tranne gli assistenti di volo dell’Aeroflot, solo grazie a loro siamo arrivati al nostro albergo, il Metropol sulla Piazza Rossa. Rimanemmo interdetti, David per primo, dalla serietà e solennità delle guardie che marciavano dinnanzi a noi. Erano degli automi, distaccati». I ricordi e gli scatti del celebre fotografo Andrew Kent vanno in scena dal 2 aprile al TAM, Teatro Arcimboldi di Milano nel la mostra David Bowie the Passenger. Ben 60 scatti oltre a diversi cimeli e documenti originali provenienti dall’archivio di Kent che faranno felici i fan del Duca Bianco. Accanto al percorso fotografico verranno fedelmente e filologicamente ricostruiti gli ambienti protagonisti dell’avventura europea di Bowie a metà degli Anni Settanta: Vedremo il vagone del treno che lo portò fino a Mosca, la sua stanza d’albergo a Parigi, abiti, microfoni, macchine fotografiche, dischi, modellini, manifesti: un viaggio immersivo in una delle parentesi più affascinanti della carriera di un’autentica icona della cultura popolare.
Tra il 1975 e il 1976 Bowie decide di lasciarsi alle spalle l’esperienza americana, culminata con la canzone e l’album omonimo Young Americans e le riprese del film L’uomo che cadde sulla terra per tornare in Europa. «Voleva rifondare la sua carriera» disse, e anche poco prima di morire, nonostante vivesse a NY da anni, ammise che si sentiva intimamente, profondamente europeo. A metà degli Anni ’70 David tentava di sopravvivere a Los Angeles tra esoterismo, magia nera e cocaina. Quest’ultima poi lo stava davvero facendo implodere proprio all’apice del successo e cercò conforto in un romanzo di Christopher Isherwood ambientato durante la Repubblica di Weimar: Addio a Berlino. «Quest’ultima fu la città prescelta – racconta Kent – e nonostante a Londra ci fossero forti segnali della rivoluzione Punk, l’ex-capitale del Terzo Reich esercitava su Bowie un fascino unico e irresistibile ed era ovvio che si trattava di quel maledetto muro che divideva Est e Ovest, Capitalismo e Comunismo. Quella frontiera, nel cuore della città paradossalmente eccitava la sua creatività».
Durante il tour promozionale del suo album, Station to Station, Bowie era diventato «The Thin White Duke» ovvero «Il Sottile Duca Bianco»: l’elegante, sofisticato, pallido ed emaciato crooner con camicia bianca, panciotto e pantaloni neri nasceva dalla mente non convenzionale di un artista che aveva espanso i confini del pop. I costumi di scena del «Duca» avevano introdotto nuovi elementi alla performance, una teatralità prima sconosciuta in quel contesto. «Le mie fotografie – dice Kent – raccontano un periodo concitato dove tutto stava cambiando sia per Bowie che per il mondo attorno a lui. Quando andammo in Unione Sovietica, mi occupai dei visti e di quel breve soggiorno rimangono le fotografie incluse nel percorso della mostra e restituiscono un istante unico». Ci sono foto in posa insieme con Iggy Pop davanti al Cremlino o al Mausoleo di Lenin, istanti unici dove la fame di onniscienza che alimentava la mente di Bowie, lo stava preparando per Low, Heroes e Lodger la famosa Trilogia di Berlino. Musica europea: decadente, morbosa, malinconica e rarefatta in alcuni casi. La foto più intima del Duca? «Probabilmente il momento più sincero fu quando gli feci le foto per il passaporto. Non l’ho mai trovato così sinceramente se stesso».