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 2022  marzo 25 Venerdì calendario

Intervista a Francesca Michielin sul suo primo libro

Walt Whitman, dinnanzi alle contraddizioni di cui si sentiva composto in quanto essere umano, disse “Sono grande, contengo moltitudini”. Parole che nella mia testa echeggiano di continuo. Parole che hanno fatto la storia della letteratura. Parole che sono riemerse dall’oceano del mio immaginario leggendo l’esordio di Francesca Michielin.
Il cuore è un organo, da poco in libreria per Mondadori, è la storia di Veridiana, una ragazza giovanissima che, in arte Verde, fa la cantante. Morta Anna, la sua migliore amica, Veridiana deve affrontare uno dei primi pezzi di adultità che cercano di farsi spazio nel suo mondo. Il dolore per la perdita è spiazzante, ma è pure il terreno da cui possono germogliare nuovi fiori. È il terreno della vita adulta, della complessità, delle moltitudini.

Partiamo dal principio, com’è nato il romanzo, da dove viene Veridiana?

È fiction. Ogni cosa è inventata e allo stesso tempo c’è tanto delle mie esperienze. Credo che un po’ tutti gli autori e le autrici attingano dal proprio vissuto, anche se spesso si tratta di un vissuto emotivo. Veridiana, invece, è quel tipo di ragazza bistrattata da un sistema, quello musicale, in cui il pop è esasperato ed esasperante.

Che intendi?

Il romanzo è ambientato nel 2005, periodo in cui c’era una distinzione netta tra chi ascoltava un certo tipo di pop e chi tutto il resto. Era inconcepibile ascoltare sia Christina Aguilera sia i Red Hot Chili Peppers, ad esempio. Lei, invece, Veridiana, ha in sé una grandissima complessità interiore e, dapprima inconsapevolmente poi con una coscienza maggiore, questa sua complessità la coltiva. E non solo musicalmente.

La famiglia nella tua storia ha un ruolo importante, ma il padre della tua protagonista non c’è, è fuggito. Perché questa scelta?

Perché di situazioni del genere, purtroppo, ce ne sono tante. È capitato anche a una persona a me vicina. Il padre non l’ha riconosciuto e lui è dovuto crescere senza. La sua situazione, in tal senso, mi ha ispirata. Devo dire, però, che in generale volevo anche che i maschi qui non trovassero posto. In questo romanzo le figure maschili sono tutte volutamente assenti o in secondo piano, come se partecipassero alla storia stando dietro una tenda.

Claudio, il fidanzato di Veridiana, è molto presente, però.

Ma non è il classico maschio alfa. Non è quel tipo di uomo, aggressivo e arrogante, che sfoggia una presunta virilità – come succede spesso. È, direi, un inetto che sceglie di non scegliere. Un tipo di uomo a cui manca il coraggio di usare il proprio cuore e, visto che il romanzo ruota proprio attorno a questo concetto – al cuore come sede di una vastità di cose –, volevo dare a Claudio l’incapacità di usarlo, il suo.

Però nonostante Claudio non sia in grado di predominare in questo senso su Veridiana esercita il proprio ascendente in modo cattivo. Penso alla scena della meringata, ad esempio – lei vorrebbe mangiarne una e lui le dice che non dovrebbe, che sta bene così. Mi sono chiesto, quindi, perché Veridiana si lascia andare a un rapporto tossico?

Veridiana sente il desiderio, quasi necessità, di appartenere a qualcosa e Claudio è per certi aspetti il genere di persona che può darle questa illusione. È una relazione più di facciata che di reale trasporto, ma Veridiana nella bolla che abita con lui si sente accettata e questo per lei è importante.

D’un tratto, lei sembra vederlo con occhi nuovi.

È la perdita di Anna, il dolore può pure snebbiarti lo sguardo. Quando muore Anna, capisce quanto stia perdendo intrattenendo questa relazione con Claudio. Quanto stia togliendo a sé stessa e alla propria felicità.

Veridiana parla pure spesso della memoria, del passato. Tu che rapporto hai con i ricordi?

Viscerale, pure se cerco di maneggiarli con attenzione perché i ricordi possono essere pericolosi. Possono zavorrarti, in un certo senso, impedirti di andare avanti. E può capitare anche con i ricordi di quello che non hai vissuto. Spesso è la memoria di ciò di cui non hai fatto esperienza a farti più male.

Vale a dire?

Prendi me. Io non ho avuto una vera adolescenza, quantomeno non in senso canonico. Ho iniziato a lavorare, e a pieno regime, a sedici anni e spesso mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita in quegli anni se le cose fossero andate diversamente.

Ancora a proposito della memoria: c’è un ricordo in particolare che ha a che fare con la stesura del romanzo a cui sei affezionata?

Uno in particolare direi di no, pure se delle settimane in cui ero in fase di chiusura ho dei ricordi chiari e felici. Era estate ed ero in tour, avevo questo computer caldo addosso in ogni momento libero della giornata ma nonostante tutto, la stanchezza e il caldo, appunto, non mi pesava. C’erano le Olimpiadi, tra l’altro, e nell’aria c’erano come delle belle vibrazioni.

Altro aspetto fondamentale, il senso di colpa. A un certo punto Veridiana piange per la morte di Anna, lo fa davanti a Claudio e, subito dopo, sente di dovergli chiedere scusa per questo sfogo. Perché capita che ci scusiamo per come siamo fatti?

Mi capitava spesso fino a pochi anni fa. Purtroppo, il sentire di doversi giustificare per come si è fatti è comune. È che abbiamo l’impressione che il mondo non ci stia accogliendo: vorremmo che ci abbracciasse, ci accettasse, ci comprendesse. E quando invece non succede pensiamo di essere nel torto. Manifestiamo una parte di noi stessi e in risposta avvertiamo una certa rigidità che ci fa male, ci fa pensare di essere sbagliati. Ma sbagliati rispetto a chi?

A cosa credi sia dovuto?

A una generale mancanza di empatia, all’incapacità di connetterci tra di noi. Fatto che non nasce dalla cattiveria degli altri, è chiaro. Semplicemente ognuno di noi ha in testa tanti pensieri, tanti problemi. E focalizzarci pure su quelli degli altri non sempre è facile.

E questa mancanza di empatia a cosa credi sia dovuta?

È che abbiamo bisogno di esprimerci sovrastandoci a vicenda. Invece, secondo me, dovremmo sempre prenderci una pausa. E riflettere. Domandarci se sappiamo abbastanza di una persona o di una situazione per poter esprimere un giudizio. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, ci limitiamo al tentativo di affermare noi stessi rispetto a chi abbiamo davanti.

Una dinamica che con i social esplode.

Nei social emerge tanto. Succede qualcosa, e sono tutti a commentare. Il fatto è che così facendo si ha l’impressione di affermare la propria presenza, la propria esistenza ma non è così. In un meccanismo del genere, l’empatia è la prima vittima perché anteponiamo il nostro ego all’altro.

Nel libro Veridiana dice che essere fragili è come essere meno: credo che in qualche modo si leghi a ciò di cui stiamo parlando ora. Tu che rapporto hai con la fragilità?

Pensa, mi sono appena laureata proprio con una tesi sul concetto di complessità e sulla sua rivendicazione.

Dobbiamo accettare l’idea che siamo imperfetti, incompleti, comprendere che è proprio dirigendoci verso l’adultità che diventiamo fragili. Da bambini crediamo che crescendo diventeremo più forti mentre, in realtà, il momento di maggior potenza per un essere umano è l’infanzia perché non esiste contraddizione, tutto è assoluto.

Paura e sogno sono gemelli, dice Veridiana. Cosa intendi?

Nella letteratura greca, sogno e morte sono gemelli: nel momento in cui sogni ti abbandoni, il tuo inconscio emerge, e se hai delle paure recondite vengono fuori anche loro.

E per te cosa sono paura e sogno?

Le associo anche alla musica.

In che senso?

Sto cantando davanti a tante persone e voglio far arrivare tutto di me, voglio far arrivare il meglio, ma al contempo mi sento vulnerabile perché mi sto esponendo. Allora sento sogno e paura che coincidono.

Veridiana dice che non è tanto l’essere sé stessi la vera difficoltà, quanto il dover essere sempre sé stessi al proprio meglio. Mi ci sono ritrovato, in queste parole. E ho trovato anche molto della nostra generazione. Pensi sia una caratteristica dei millennial?

Sì, direi di sì. La realtà che viviamo è diventata parecchio competitiva. Tutto è una gara. Ma chiaramente è una cosa nociva.

Pensi ci si possa sottrarre, a questo meccanismo?

Io non riesco, ma è una necessità. Sennò diventi quello che fai e invece tu sei quello che sei, nient’altro. Sfuggire a sé stessi, prendersi tempo per non fare nulla, staccare tutto, evadere. È fondamentale.

È questa quindi la differenza tra vivere e lasciarsi vivere – differenza che nel romanzo Veridiana fa?

Le cose vanno sempre attraversate, la differenza di cui parliamo sta in questo: vivere è attraversare l’esistenza, lasciarsi vivere è farsi attraversare. Il concetto di evasione da sé stessi dev’essere maneggiato con cura, però. Prendi Veridiana. Vive la morte di Anna in maniera contorta, ma a un certo punto si rende conto che deve attraversarlo, il lutto. Attraversare il dolore per imparare qualcosa di nuovo.

Veridiana, come tutti i ragazzi e le ragazze della sua, della nostra, età, è alla ricerca di un suo posto nel mondo. Ho avuto l’impressione, però, che alla fine capisca che non si tratta di un luogo da scovare ma da costruire.

La vita è un percorso, una costruzione che non ha una fine. Quello che importa davvero è scegliere e non lasciarsi scegliere – per citare De André. E credo che questo atto, scegliere, sia uno dei passi più importanti nel percorso di crescita. Lei alla fine lo fa, Veridiana alla fine compie una scelta. Per questo penso che il mio romanzo sia anche di formazione.

La scrittrice messicana Guadalupe Nettel dice che la crescita è uscire dal mondo narrato dai genitori per entrare in quello narrato da noi. È anche un po’ quello che fa Veridiana, sempre verso la fine. La crescita è questo?

Direi di sì, tant’è che i genitori sono tra gli individui con cui sentiamo di frizionare di più. All’inizio siamo rabbiosi, avvertendo questo attrito, poi subentra una sorta di delusione, alla fine arriva la comprensione.

Chi abbiamo di fronte, parlo dei genitori, intendo gli adulti in generale, sono delle persone, nient’altro che persone che al loro interno contengono tanta complessità. Una complessità che dovremmo accogliere, non con cui dovremmo scontrarci.

Quindi?

Quindi bisogna accettarci vicendevolmente, perché la perfezione non appartiene a nessuno di noi.