il Giornale, 25 marzo 2022
Le lettere (e i giudizi sprezzanti) di Italo Svevo
L’imponente volume che raccoglie le Lettere di Italo Svevo (il Saggiatore, pagg. 1224, euro 65, a cura di Simone Ticciani e con un saggio di Federico Bertoni) aiuterà sicuramente a fare nuova luce su un autore così importante e anomalo nel panorama della letteratura novecentesca, e in genere su quel rapporto tra l’opera e la vita, tra attività letteraria e biografia che niente illustra meglio di un epistolario.
Nel caso di Svevo, poi, ovvero di Aron Hector Schmitz, per tutta la sua esistenza impiegato e industriale a Trieste, che inizia in gioventù a cimentarsi con la prosa di romanzo ma che poi decide di tacere tra il 1898, dopo che esce Senilità, e il 1923, quando è pubblicato La coscienza di Zeno, questo rapporto è complesso e diventa oggetto di particolare interesse, essenziale per capire il fenomeno che l’autore triestino rappresenta. L’epistolario descrive bene questa duplicità di immagine: il corpo maggiore delle lettere è indirizzato a Livia Veneziani, la moglie, un fluviale romanzo familiare che ci mostra il buon padre di famiglia, il dirigente d’azienda, il viaggiatore per affari, soprattutto in Inghilterra e in Francia, e ci parla di salute, fumo, tempo, fabbrica, villeggiature, insomma di una normale quotidianità.
Il destino, in quegli anni lontani dalla letteratura, lo mette però in contatto con un letterato, e che letterato: nientemeno che James Joyce, suo insegnante di inglese alla Berlitz School di Trieste. Nella sua prima lettera a Joyce, del 1909, Svevo parla di A portrait of the artist as a young man, e con un piglio leggermente padronale invita Joyce a «scrivere solo di cose forti». In una lettera dall’Inghilterra del 1912 si complimenta con lui per le conferenza che ha tenuto a Trieste su Blake e Defoe, e parlando del milione di disoccupati che conta in quel momento il Regno Unito, si rammarica, con uno snobismo molto british, di non essere tra loro e di dover lavorare. Poco più tardi, parlerà con Joyce dei Dublinesi, gli chiederà se non si deciderà mai a scrivere su Trieste, e in italiano. Sembra indelicato, ma è ancora l’industriale che parla, quasi come a un proprio dipendente.
Tutto cambia dopo il 1923. Svevo comincia a vedere i frutti del suo lavoro letterario, ed ecco che riprende a scrivere a Joyce, gli dice che sta leggendo Ulisse capitolo per capitolo, e sta «tentando di capirlo e di viverlo». Grazie a Joyce, entra in contatto con autori come Benjamin Cremieux e Valéry Larbaud. «Non si può essere più generosi di così», gli scrive quando Joyce lo raccomanda a un editore di Londra e a uno di New York.
E ora, dal 1926 sino alla fine, si affaccia come primo interlocutore Eugenio Montale. È il giovane poeta genovese che ha pubblicato ben due articoli in omaggio a lui, guadagnandosi stima e gratitudine che traspaiono da lettere davvero commosse. La prima porta come intestazione «Pregiatissimo Signore». La seconda, dopo neppure venti giorni, «Carissimo Signor Montale» che diventa «Carissimo amico» una settimana dopo. Per conto di Montale Svevo chiede a Joyce una foto: il poeta genovese è definito «critico di una certa fama in Italia». Non sembra che Svevo, immensamente gratificato dalla prosa critica di Montale, ne apprezzi l’attività poetica. Promette di leggere le poesie sperando di trovarvi qualcosa «dell’arguzia e del sentimento profondo del mio critico». E, quando Montale comincerà a lavorare per l’editore Bemporad, gli scrive: «Io attendo ansiosamente che dai versi Ella passi al modo più ragionevole di esprimersi».
Non suona quasi offensivo, e col senno di poi quasi blasfemo? Con Montale Svevo parla di sé stesso: «il difficile a 65 anni non è il cominciare, ma il finire», o «nel mondo moderno i vecchi possono scrivere, ma devono tacere», e illustra le proprie letture, tra cui quella del Peccato di Boine, che crede toscano e ancora in vita (era morto a Porto Maurizio una decina di anni prima), si lascia andare al pettegolezzo. Terribile quello su Saba: «È un candido un po’ sucido», la sua compagnia lo infastidisce, è un «istericone». Bisogna dire che il pettegolezzo è un’arte presso i letterati, anche quelli neofiti e antiletterari come Svevo.
Ormai parla in tutta confidenza con quello a cui si rivolge come «Carissimo zio Eusebio», gli raccomanda di stare alla larga dagli editori, gli chiede se per caso creda che lavorare in una casa editrice lo avvicini alla letteratura più che lavorare nel ramo dell’olio o del pellame. Come avrà reagito tra sé il giovane poeta sfuggito al destino di lavorare nello scagno del padre commerciante di colori a Genova? Montale esprime il suo malcontento per il lavoro in casa editrice, Svevo lo conforta dicendogli che se anche fa una vita che non è la sua, la fa in un punto del globo che è il suo, Firenze, città capitale per l’arte e la letteratura.
Nell’ultima lettera del 1928, anno della sua morte, Svevo da Parigi racconta le buone accoglienze ricevute e annuncia la possibilità che venga tradotto in francese Senilità. Il vecchio industriale morde un po’ di quella gloria letteraria a cui forse non pensava. O che forse era l’approdo ultimo e più ambìto della sua esistenza solo apparentemente così normale.