la Repubblica, 24 marzo 2022
Il punto sul delitto di via Poma
— La nuova testimonianza di una donna scalfisce il vecchio alibi del suo datore di lavoro. Un segreto celato per oltre 32 anni viene alla luce spostando i sospetti sull’ex presidente regionale degli Ostelli della gioventù. E antichi verbali mai approfonditi danno linfa a uno dei più intricati gialli italiani: il delitto di via Poma, avvenuto negli uffici coordinati dall’avvocato Francesco Caracciolo Di Sarno. Dopo tre lunghi filoni d’indagine e un processo terminato in un nulla di fatto, la procura di Roma ha deciso di lavorare ancora una volta per scoprire cosa è accaduto il 7 agosto del 1990, quando il corpo di Simonetta Cesaroni fu ritrovato, martoriato da 29 coltellate. Un’indagine che sembrava quasi un atto dovuto, adesso assume connotati più importanti, acquisendo elementi che prima di questo momento non erano emersi e ipotizzando un reato ambizioso: “omicidio volontario”, un’accusa che svela l’obiettivo degli investigatori: trovare chi ha ucciso Simonetta Cesaroni.
Una voce raccolta dall’ex funzionario di polizia che negli anni ’90 ha seguito il caso, Antonio Del Greco, è stata riferita alla famiglia della vittima. Il poliziotto la considera «molto verosimile». «È una fonte attendibile» dice spiegando che «la testimonianza riguarda un alibi che non è più così ferreo come era prima, un alibi di una persona che era già stata sentita». Il riferimento è a Francesco Caracciolo Di Sarno, l’allora presidente regionale degli Ostelli della gioventù, nella cui sede romana di via Poma lavorava Simonetta Cesaroni. L’avvocato, scomparso 6 anni fa, ha sempre detto di non aver conosciuto Simonetta e di non sapere perché proprio il 7 agosto, dagli uffici di via Poma partirono due chiamate verso la sua tenuta. Per anni ha continuato a giurare che quel giorno era in campagna. E di essersi allontanato solo per accompagnare la figlia in aeroporto.
Adesso però la testimonianza di una sua ex collaboratrice fa vacillare il suo alibi. È colma di dettagli, circostanze. E la famiglia Cesaroni ha deciso di riassumerla in un esposto che lo scorso ottobre è arrivato in procura, a Roma. I pm hanno prima aperto un’inchiesta senza reati o indagati, poi hanno ipotizzato un’accusa. E hanno iniziato ad ascoltare diverse persone “informate sui fatti”. Altre verranno sentite nei prossimi giorni. Un proposito a cui spera di arrivare anche il Parlamento, con una commissione d’inchiesta che inizierà il prossimo maggio alla Camera.
Tra migliaia di atti, testimonianze e segnalazioni c’è anche un verbale datato 1992, due pagine scritte da un commissario di polizia al dirigente della Digos che sembravano essere dimenticate, e che adesso assumono un significato importante. Riguardano l’avvocato Francesco Caracciolo Di Sarno: «Sarebbe noto fra gli amici per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze, episodi che seppure a conoscenza di molti non sarebbero mai stati denunciati grazie anche alle “amicizie influenti” dallo stesso vantate», scrive il poliziotto. E aggiunge ciò che ha saputo: “Il giorno del delitto, pressappoco nell’ ora riportata dai media come quella presunta dell’omicidio, l’avvocato sarebbe rientrato affannato e con un pacco mal avvolto presso la propria abitazione”, per poi uscire con una “grossa borsa”. Caracciolo inoltre, dopo la riapertura del caso, era “oltremodo agitato e preoccupato, tanto da assumere atteggiamenti maniacali”, si legge negli atti adesso rivitalizzati per risolvere un delitto dopo 32 anni. Nell’estate del 1990 Simonetta era una ventenne come tante. Abitava nella periferia di Roma Sud con il padre Claudio, tranviere, la madre Anna, casalinga, e la sorella Paola. Lavorava per la società di commercialisti Reli sas, che due pomeriggi la settimana la mandava, su richiesta dell’avvocato Caracciolo, nell’ufficio regionale degli Ostelli della gioventù, in un elegante palazzo in stile liberty di via Poma, nel quartiere borghese di Prati, dove Caracciolo viveva e lavorava.
Era lì anche il 7 agosto, quando è stata uccisa. A trovare il corpo è stato Salvatore Volponi, uno dei datori di lavoro di Simonetta, convinto dalla sorella della vittima a verificare perché la ragazza non fosse tornata a casa. “Bastardo”, avrebbe esclamato Volponi. Un’affermazione generica, si giustificherà poi a processo. Perché di processi e indagini, sul delitto di via Poma, ce ne sono stati parecchi. L’inchiesta inizialmente ha puntato sul portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, poi su Federico Valle, nipote dell’anziano architetto che risiedeva nel palazzo. Nulla di fatto. Come non hanno portato a una risoluzione del caso neanche i tre processi celebrati venti anni dopo il delitto contro il fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, condannato in primo grado e assolto fino in Cassazione. Adesso ancora un’indagine, alla luce di un alibi, quello di Caracciolo, che non sembra essere così ferreo.