Corriere della Sera, 24 marzo 2022
Intervista a Gregorio Paltrinieri
È nato rana e diventato uomo seguendo l’evoluzione della specie, letteralmente: «A dieci anni, da ranista, ero molto forte. Poi ho dovuto abbandonarla per decisione non mia: in un’estate sono cresciuto tutto d’un botto, non ho più trovato la coordinazione e il sincronismo tra braccia e gambe. Mi sono rifugiato nello stile libero e ho scoperto una straordinaria acquaticità». Gregorio Paltrinieri, 27 anni, anima lunga, spalle larghe, testa pensante e baffetti provvisori («Alla prima gara, mi rado: l’aerodinamicità per un nuotatore è tutto»), fuoriclasse del cloro e del sale, raro esemplare di bipede senza branchie capace di completare con disinvoltura la transizione dalla piscina alle acque libere, in una vita precedente doveva essere pesce. Per forza.
Carpa, spada o rana pescatrice Gregorio?
«Mah, va bene anche alga o medusa. La realtà è che io, lontano dall’acqua dolce o salata, reggo davvero poco. Anche quando l’allenamento per le gare diventa noioso, faticoso e ripetitivo (cinque ore al giorno, sei giorni su sette, significa oltre 100 chilometri nuotati alla settimana), dopo un po’ l’elemento fluido mi manca. Cerco l’acqua, spinto da un misto di nostalgia e desiderio di agonismo, anche in montagna».
Cos’è l’acqua per lei?
«Abbraccio, coccola, emozione: tutto. L’acqua è vita. È quello per cui ho sempre lavorato, è il senso delle mie giornate da quando avevo dodici anni, è il mezzo attraverso cui pormi degli obiettivi. In breve, è sentirmi a posto con me stesso: se me la togli, mi privi della mia essenza. Come un pesce spiaggiato che boccheggia, ha presente? È come se le mie sensazioni in acqua venissero amplificate: provo gioie e dolori incredibili, di cui ormai non mi stupisco più. In acqua, per me, diventa tutto normale».
Qual è il suo primo ricordo in costume da bagno?
«Ho tre mesi, sono nella piscina di Novellara gestita da papà. Ho pochissimi ricordi, data l’età, ma conservo ancora le foto del corso di acquaticità a cui mi iscrissero i miei genitori. Nel primo ricordo vero ho la prima medaglia al collo: un 25 metri a rana, bronzo. Ho sei anni».
Seriamente: lei crede alla reincarnazione?
«Mi piacerebbe: il concetto di reincarnazione mi ispira un sacco. Da piccolo ero appassionato anche di altri sport, ma poi tornavo sempre al nuoto. Sono certo che non in tutte le situazioni terrestri saprei cosa fare e mi sentirei a mio agio: a volte ho paura di sbagliare, come tutti, di comportarmi in modo non adeguato. In acqua, invece, in ogni circostanza in cui mi metti me la cavo: la soluzione la trovo sempre. L’altro giorno sono andato a Ostia per allenarmi in mare. Arrivo in spiaggia con il mio coach e trovo dei cavalloni giganti: burrasca totale. Allenamento rinviato, naturalmente, ma io ho immaginato di buttarmi dentro, e all’idea mi sentivo in pace. Il mare è un elemento che conosco».
Così bene da non temerlo?
«Mai avute preoccupazioni. E sì che ne ho passate tante: ho attraversato alghe e meduse, mi pizzicavano in faccia, mi si incastravano nel costume, s’infilavano dappertutto... A Grosseto e Abu Dhabi era pieno. Mi fa schifo, magari. Paura mai».
E l’idea dello squalo che compare dagli abissi più profondi, tipo nel film?
«Oddio, quella proprio no! Mi butto e via, non ci penso più. Anche in Australia, dove di squali è pieno e ci sono i cartelli che ti avvertono: se fai il bagno e vieni mangiato, la responsabilità è tua».
Cosa si pensa durante una gara di 10 chilometri che dura quasi due ore?
«Alla strategia, agli avversari, alle meduse. Guai prendersi vacanze mentali dalla competizione, è severamente vietato. Resto vigile, passo il tempo nuotando e disinnescando i rivali».
Tutto questo furore agonistico basculante nasce dalle sfide sportive da piccolino con papà Luca, tra Carpi e la casa di famiglia vicino a Sarzana?
«La miccia si è innescata proprio così. O forse quella era già una conseguenza del mio essere nato competitivo, chi lo sa. La certezza è che sfidavo papà a qualsiasi attività e gioco, desideravo fortissimamente batterlo e lui non me lo permetteva: tornavo a casa piagnucolando dalla mamma ma mai una volta in vita sua mio padre ha lasciato apposta che lo battessi per farmi piacere. Se non lo meritavo, non vincevo. Un grande insegnamento di vita».
E quando quel giorno è arrivato?
«In vacanza in Sicilia, gara di nuoto in piscina sui 25 metri. Ricordo una gioia incredibile».
Ha mai rinunciato a una sfida?
Paure e limiti
Non temo le meduse, non mi spaventano gli squali Però ammetto di non essermi mai veramente goduto una vittoria: l’euforia per l’oro di Rio durò solo cinque secondi
«Non lo farei mai. Se ti tiri indietro una volta, è finita».
Il successo, per esempio un meraviglioso oro nei 1.500 ai Giochi di Rio de Janeiro 2016, riesce a goderselo, Gregorio?
«Non mi sono mai veramente goduto una vittoria. Mai. Me lo impedisce come sono fatto: cerco sempre il pelo nell’uovo, vorrei di più, sento subito questa malinconia che mi proietta verso la prossima sfida. Passo più tempo a cercare l’errore che a far festa. In Brasile, ad esempio: ho vinto ma senza record del mondo. Ho trascorso giorni a rimproverarmelo. L’euforia pura è durata sì e no cinque secondi: quando ho toccato la piastra e ho visto che ero primo. Stop».
Quella malinconia di fondo, di cosa sa?
«Da bambino, nel mio immaginario chi vinceva un’Olimpiade era un supereroe. Quando poi mi sono ritrovato in quella situazione, mi sono reso conto che ero rimasto un ragazzo come tutti. Altro che superpoteri. Non è vincere che mi fa stare bene, perché non mi sento mai appagato: è lavorare tutti i giorni per un sogno».
Però si sente innamorato di una brava schermitrice. Ha voglia di parlarne?
«Con Rossella Fiamingo sto vivendo una storia molto bella. Per me, è amore. Ci siamo conosciuti anni fa e ritrovati, all’evento di uno sponsor, prima dell’Olimpiade in Giappone. A Tokyo ci siamo avvicinati moltissimo, ore e ore a parlare, una cosa stranissima per me, che prima delle gare mi ritiro nel mio spazio e spiccico pochissime parole. In quel contesto, invece, stare con Ross mi faceva bene. Lì mi si è accesa la lampadina. Oh-oh, sta succedendo qualcosa... Dopo Tokyo sentivo di voler ancora stare con lei. Siamo partiti per le vacanze nella sua Sicilia e zac».
Zac nel senso che non vi siete più lasciati?
«Lo sport ci separa, purtroppo. Cerchiamo di vederci il più possibile: io di sicuro sono in una fase in cui tutto quello che voglio è lei. Vorrei fare tutto con Rossella: con le ragazze precedenti non mi era mai capitato».
Cosa le è piaciuto di Rossella?
«La sua sensibilità: è dolcissima. Si emoziona per ogni cosa, mi sa ascoltare, mi capisce al volo e prova tutte le sensazioni al massimo. Ha tre anni in più di me, ma non pesano. Il matrimonio? Ma no, è presto: tutti e due abbiamo mille obiettivi da raggiungere».
Che ci facevate la notte di Capodanno in canoa in mezzo al golfo di Napoli?
«Una pazzia! L’idea romantica era vedere i fuochi d’artificio dal mare. L’ho convinta a indossare la mia muta da fondo, faceva un freddo bestia. Siamo a tre chilometri dalla costa, senza una luce, i fuochi sono pazzeschi; poi succede l’imprevedibile. A mezzanotte e mezzo cala una nebbia densissima, mai vista a Napoli! In più, c’è il fumo dei fuochi che peggiora la situazione. Ci abbiamo messo due ore a rientrare, sbattendo contro barche ormeggiate che non vedevamo: avevamo perso il senso dell’orientamento. Per me una situazione eccitante, per lei no. Ha ricominciato a parlarmi dopo un paio di giorni...».
Sofia Goggia che a Pechino agguanta l’argento nella libera ventitrè giorni dopo l’infortunio le ha ricordato un certo Paltrinieri che a Tokyo conquista l’argento negli 800 e il bronzo nella 10 km dopo aver avuto la mononucleosi?
«In Sofia mi sono rivisto in pieno. L’avvicinamento a Tokyo è stato un periodo difficilissimo da gestire, tra alti e bassi e la malattia».
Quando tutto sembra perduto, in quali meandri di sé si vanno a reperire le energie per non lasciarsi sfuggire un evento inseguito per quattro lunghi anni?
«Nei meandri dell’incoscienza, dove sennò? Ti chiedi: perché proprio a me? Ero nella forma della vita, non mi ero mai allenato tanto. E prima dell’Olimpiade mi ritrovo completamente fermo per tre settimane per colpa della mononucleosi. Pensavo davvero di non meritarmelo. Da solo ti fissi solo su cose negative, da solo non ce l’avrei mai fatta. Le persone vicino a me mi dicevano: Greg, anche se arrivi a Tokyo al 50% delle tue potenzialità, sei sempre il più forte. Non era vero, naturalmente, ma quando i dottori mi consigliavano di non partire io ho scelto di crederci. Fisicamente, né io né Sofia eravamo lontanamente al top della forma: decisivo è l’approccio mentale. La testa può tutto. E io mentalmente non sono mai stato così forte come in Giappone l’estate scorsa».
Il piano di battaglia per Parigi 2024 è lo stesso? 800 e 1500 in piscina e 10 km nella Senna?
«Sì. Voglio fare le tre gare. A maggior ragione dopo Tokyo, dove non ero io».
L’amico Tamberi
Venne a tifare per me
in piscina con il gesso e le guance rigate di lacrime. È più prorompente di me ma siamo simili: essere suo amico è facilissimo
L’amicizia con Gimbo Tamberi, oro nel salto in alto dopo essersi rotto il tendine della caviglia alla vigilia di Rio 2016, è vera o c’è un po’ di marketing?
«Verissima! A Rio venne a tifare per me in piscina con il gesso e le guance rigate di lacrime. Ci siamo parlati ed è scattato qualcosa. Lui è molto più esuberante di me, il suo animo è prorompente però siamo molto più simili di quello che può sembrare. Gimbo era stato derubato dei Giochi 2016, si è ripreso tutto con gli interessi cinque anni dopo. Fighissimo. Come si fa a non diventare amico di un tipo così?».