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 2022  marzo 24 Giovedì calendario

La crisi demografica spiegata da Massimo Livi Bacci

“È da più di una generazione che siamo in crisi demografica”. È lapidario Massimo Livi Bacci, storico professore di demografia all’Università di Firenze e senatore del centrosinistra tra il 2006 e il 2013, a cui abbiamo chiesto di commentare il recentissimo report dell’Istat che ha certificato un nuovo record negativo delle nascite (ne abbiamo scritto lunedì nell’inserto economico del Fatto Quotidiano). Neanche questo ennesimo bollettino, però, riesce a scuotere la politica su un problema cruciale per lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Davvero non riusciamo più a immaginare una prospettiva diversa dal declino demografico?
Professore, se il problema risale ad oltre una generazione fa, in che periodo della nostra storia affonda le sue radici la crisi demografica italiana?
Negli anni Ottanta, quando la natalità è per la prima volta caduta sotto il livello di rimpiazzo. Si tratta del livello che permette a una popolazione di galleggiare sugli stessi numeri. Quindi, la bassa natalità ormai è con noi da più di trent’anni. Con il tempo, nascendo pochi bambini, la popolazione è invecchiata ed è aumentato il numero dei decessi. Dunque, le radici sono lontane, ma il sintomo concreto della riduzione della popolazione risale al 2014. È allora che la popolazione italiana ha cominciato a calare. Tutto ciò nonostante un’immigrazione notevole, anche se affievolita prima dalla crisi economica e poi dalla pandemia. L’effetto è che dal 2014 l’Italia ha perso 1 milione e 300mila abitanti.
Quali sono stati gli errori e le miopie degli ultimi decenni?
È difficile dirlo: nessuno sa con certezza come si possa arrestare un calo delle nascite. Quello italiano non è un caso unico al mondo. Giappone, Spagna e anche altri Paesi europei si trovano in una situazione simile: è un fatto transnazionale. Per quanto riguarda le cause, essenzialmente si possono ricondurre al ristagno economico, che ha portato all’esclusione dei giovani dal lavoro o comunque a un ritardo nell’entrata nella vita attiva. Ciò si è riflesso in una rimodulazione delle scelte riproduttive, che sono state sempre più ritardate e ridimensionate. A mio parere, quindi, la “medicina” sta in un’iniezione rinvigorente per la vita e le prospettive di tutti i giovani.
L’occupazione femminile è un fattore nelle scelte di politica demografica?
In linea generale, nei Paesi dove l’occupazione femminile è più alta, la natalità è un po’ più alta che da noi. Le donne e le coppie hanno bisogno di una certa sicurezza per fare figli, una sicurezza che è maggiore se si hanno due redditi in famiglia.
Allora non si può non iniziare dalle condizioni del mercato del lavoro…
Sì, ma non solo. I giovani negli ultimi decenni hanno guadagnato libertà “formali”, ma hanno perso prerogative “effettive”. Non hanno la libertà fondamentale, quella di essere autonomi dal punto di vista economico. Bisogna riconoscere ai giovani un ruolo effettivo nella società, che dipende non solo dai soldi, ma anche dalla scuola, dall’università, dal sistema formativo in genere e dalla partecipazione.
La nuova fase di politica economica che sembra essersi aperta con il Piano di ripresa (Pnrr) può far ben sperare per il futuro?
Se questi grandi investimenti faranno ripartire la macchina Italia, che per venticinque-trent’anni è stata ferma, sicuramente ciò si rifletterà in una situazione più positiva. Ma bisogna avere coscienza che il problema demografico esiste. È stato introdotto l’assegno unico per i figli, ed è una buona cosa, perché dà un sostegno più robusto alle scelte delle coppie. È un inizio, ma è ancora poco.
L’aumento della domanda di assistenza richiesto da una popolazione più anziana viene visto spesso solo come un costo. Ma non potrebbe anche rivelarsi un’opportunità per creare nuovi lavori di cura e assistenza? Lavori “concreti”, come avrebbe detto un Linceo come lei, Giorgio Lunghini.
Sicuramente sì. Si può investire in nuove attività, come domotica, digitalizzazione, innovazione del welfare, delle abitazioni e dell’urbanistica. Ciò non toglie, però, che il fortissimo invecchiamento rappresenti un peso per l’economia. È come una macchina con una grossa carrozzeria e un motore debole. Bisogna che il motore venga rafforzato. Se ci sono pochi giovani, che oltretutto non sono in condizione di generare valore al meglio, il motore è debole, la popolazione invecchia e il Paese ristagna.
Ma nella politica italiana, da qualche parte, c’è la consapevolezza di questa crisi demografica?
Teoricamente la consapevolezza esiste. Il problema è noto. I dati sono lì, se ne parla da decenni. Ma le politiche necessarie a contrastare la crisi demografica richiedono investimenti di lungo periodo e un’unanimità di fondo delle forze politiche. Nazioni come la Francia o i Paesi scandinavi hanno da molti decenni politiche familiari e giovanili coerenti, nonostante i cambi di governo. A volte colorate di azzurro, a volte di rosa, queste politiche però sono state sempre mantenute. Le forze politiche che si sono avvicendate hanno riconosciuto che c’era un problema di base da risolvere in un certo modo. Invece, in Italia, fino ad oggi questa concordia non c’è stata.