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 2022  marzo 24 Giovedì calendario

Biografia di Bruno Conti raccontata da lui stesso

La sua Roma, la Nazionale, la vita, i valori e un calcio che non esiste più. Bruno Conti si racconta in un libro, «Un gioco da ragazzi» (Rizzoli, verrà presentato venerdì al Teatro Manzoni di Roma). 
Conti, la Nazionale è impegnata nelle qualificazioni per il Mondiale. Non sarà un gioco da ragazzi, vero? 
«No, le partite vanno sempre giocate per renderle facili. Ma io sono convinto che non ci saranno problemi».
Come mai questo ottimismo?
«Perché conosco Mancini, ho visto, come tutti, l’Italia all’Europeo e quanto ci ha fatto divertire, ha valori tecnici di livello. Un gruppo unito».
Ecco, il gruppo. Lei ne sa qualcosa: nel 1982 avete dimostrato che con quello si può arrivare a grandi successi.
«Sì, senza dubbio, è la base dei successi. E Mancio in questo mi ricorda Bearzot. È stato bravo Roberto, a inserire Vialli, De Rossi, tutta gente capace di fare gruppo, di trasmettere i sentimenti che la maglia azzurra ti dà. Uno staff azzeccato, quello è il segreto del successo. Io sono ottimista».
Andare a giocare in Portogallo non sarà semplice, però. 
«Intanto pensiamo alla Macedonia. E poi questa Italia ha vinto a Wembley, non avrà paura di giocare a Oporto o in Turchia». 
Come spiega questo calo dopo l’Europeo vinto? 
«Succede. È accaduto anche a noi dopo la vittoria in Spagna». Non andare al Mondiale sarebbe... aggiunga lei l’aggettivo giusto.
«È un qualcosa che non prendo proprio in considerazione. Questa è una maglia pesante, i ragazzi hanno dimostrato il carattere e la bravura, non si faranno influenzare da vecchie paure».
Che significa indossare la maglia azzurra?
«Io penso che ogni calciatore sogni la Nazionale, è una maglia meravigliosa, ti trasmette senso di responsabilità, appartenenza. Andando avanti nel tempo, ti accorgi di quanto ti faccia conoscere: ancora oggi mi arrivano lettere da ogni parte del mondo». 
Lei è Bruno Conti, però.
«Io sono stato fortunato ho sempre trovato grandi gruppi, uomini straordinari, con cui abbiamo conquistato il mondo».
Al di là della vittoria mondiale, quale momento azzurro porta con sé?
«La prima convocazione, contro il Lussemburgo. Davanti a me c’erano mostri sacri come D’Amico e Causio. Vincenzo ha risposto male a Bearzot, che lo voleva far giocare a destra mentre lui sosteneva che nella Lazio giocava sempre a sinistra, e si è fatto fuori; il Barone pian piano sono riuscito a scavalcarlo con le prestazioni e poi lui era stato anche espulso e dalla Danimarca in poi giocai io». 
Lei è tra i pochi romani/romanisti ad aver vinto un Mondiale. 
«Sì, ora spero tocchi a Pellegrini. Ma al di là dei romani, è un augurio che faccio come italiano. In questi momenti difficili bisogna essere uniti. La Nazionale è anche unione».
Il compagno più forte con cui ha giocato in Nazionale?
«Preferisco ricordare personaggi importanti che hanno giocato poco, come Dossena, Galli, Selvaggi».
Come mai ha scritto un libro? Paura di essere dimenticato?
«No, non cerco visibilità. Se vai su internet e scrivi Bruno Conti compare la mia carriera sportiva. Io volevo raccontare anche la mia vita vera, fatta di sacrifici, di umiltà, di una famiglia che mi ha dato tutto. È un omaggio a mio padre Andrea e a mia madre Secondina. Ho voluto pure dare un messaggio ai più giovani: che il calcio non è solo soldi e fama, ma rinunce, sacrifici, bocciature. Quando cadi devi saperti rialzare. E poi a luglio sono 40 anni dal Mondiale, mi piaceva evidenziare ciò che non è stato raccontato di quell’esperienza».
Lei era un muratore, lavorava con le mani e ha fatto carriera grazie ai piedi.
«È stato proprio così. Il calcio era il divertimento invernale, il baseball quello estivo. E in più lavoravo, nemmeno a scuola sono andato. Oggi è tutto diverso: i giovani più hanno e più vogliono, invece ti accorgi che la vita è fatta anche di sacrifici».
Oggi ci sono meno sorrisi nel calcio, no?
«Si sono persi i valori. Non dico sia migliore un’epoca rispetto a un’altra. La vita si evolve, va avanti. Ora ci sono gli algoritmi, è tutto molto più freddo. Si è perso lo spirito del gioco, il nostro era un calcio più semplice. Ci si divertiva di più». 
Oggi i calciatori sono aziende, sono meno in relazione tra loro.
«A noi non piaceva perdere mai durante la settimana, litigavamo pure, sai le liti con Nela, con Falcao. C’era un contatto umano ma poi finiva tutto. Oggi i ragazzi stanno a testa bassa sui social, sempre col telefono in mano, sono isolati. Si stava più insieme prima. Oggi non c’è dialogo. Quando sono a tavola con i miei nipoti, non consento che usino il cellulare. È una questione di educazione». 
Se la Roma non fosse esistita, in che squadra le sarebbe piaciuto giocare?
«La Roma è stata la mia vita, ma non nascondo che per il Napoli di Maradona un pensiero l’ho fatto. Napoli era l’ideale in quel momento. Ma sono contento così».
Infatti sono 50 anni di Roma.
«Ho fatto tutto nella Roma, per me è la vita. Non ho mai detto di no. Ho dato la mia vita, e ho ricevuto tanto in cambio».
Il primo giorno nella Roma, lo ricorda?
«Non lo dimenticherò mai. Nel 74 mi ero trovato da un cugino di mia moglie, a Lavinio, e c’è una foto famosa, in cui sono con Giordano, Di Bartolomei, Di Chiara, a testimoniarlo. In quell’occasione avevo conosciuto Agostino, durante una partita di calcetto. Poi quando sono andato a Trigoria è stato proprio lui ad accogliermi, a indirizzarmi. Mi è sempre stato vicino. Ago, il mio capitano. Un esempio ancora oggi, per tutti. Come lo è stato Scirea. Se ne sono andati troppo in fretta». 
I soldi non l’hanno mai cambiata?
«Bisogna saperli gestire, me lo diceva sempre mio padre. Io non ho mai pensato al guadagno, ho sempre pensato a divertirmi. Nessuno mi ha regalato nulla, però. Sono sempre rimasto Bruno, vengo dalla povertà».
Se tornasse indietro cosa non rifarebbe?
«Abbandonare la scuola. Ho smesso in quinta elementare per lavorare, prima come muratore e poi in un negozio come commesso. E se non fossi andato bene con il calcio? Una scappatoia serve sempre e quella te la dà solo la cultura, gli studi. Quando dovevo affrontare i giornalisti avevo paura e a Genova avevo fatto le scuole serali. Non sapevo parlare, facevo fatica, mi sentivo inadeguato, cercavo sempre di nascondermi. Perciò ai giovani che ho con me nella Roma ricordo sempre di divertirsi con il calcio, ma di non trascurare lo studio, che prima o dopo tornerà sempre utile».