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 2022  marzo 23 Mercoledì calendario

"PECCATO CHE PER MOLTI TOGNAZZI RESTI SOPRATTUTTO IL CONTE MASCETTI DI “AMICI MIEI” E IL TORMENTONE DELLA “SUPERCAZZOLA” – IL RICORDO DI FULVIO ABBATE: “PER LUNGO TEMPO IL SUO TALENTO NON MI HA SFIORATO. FINCHÉ NON MI È VENUTO INCONTRO IN UN FILM DI MARCO FERRERI, “L’UDIENZA”, PER UN GESTO MINIMO, ASCIUTTO E INSIEME SIGNIFICANTE: ECCO QUALE – E POI GIGI BAGGINI (“… FACCE ER TRENO!”), L’AMOR FROCIALE NE “I NUOVI MOSTRI” IN CUI E’ UN CUOCO GAY CHE LITIGA CON IL FIDANZATO “BUJACCARO” (“MA VADA VIA IL CUL…”) E QUELLA VOLTA CHE IL "MALE",,, - VIDEO -

Ugo Tognazzi, cento anni adesso, esatto coetaneo di Pier Paolo Pasolini, che lo volle in “Porcile”, film allegorico sul potere. Per lungo tempo il suo talento non mi ha sfiorato. Invisibile, ai miei occhi inizialmente distratti, la straordinaria, immensa, sempre sua, capacità di restituire una recitazione priva di retorica, asciutta, pura misura, ora dolente ora rassegnata, sarcasmo nel fondo dello sguardo; se stesso. Colpa o merito, forse, di un dato, come dire, geografico, antropologico.

Tognazzi, tra i “colonnelli” della cinematografica commedia all’italiana - Sordi, Gassman, Manfredi, Mastroianni, e la Vitti insieme a loro - Tognazzi restituiva infatti altri campanili, lontani da Roma, da Cinecittà e i suoi “cestini” destinati alla caciara dei set, da certa koinè che suscita complicità retorica capitolina, in grado di restituire empatia meridionale immediata. Per lui occorreva figurarsi Cremona, lo stesso luogo di Mina; il Nord, la Pianura Padana, la nebbia, i portici, le biciclette.

   Così finché non mi è venuto incontro insieme a un film di Marco Ferreri, un regista cui Tognazzi molto ha dato e dal quale altrettanto ha ricevuto. Esattamente era “L’udienza” (1972), dove Tognazzi interpreta un commissario di pubblica sicurezza presso la Città del Vaticano. Ne ho compreso la grandezza espressiva, essenziale, immediata per un gesto minimo, asciutto e insieme significante: spezzare le noci sul tavolo della cucina con un manganello, proprio lo sfollagente in dotazione alla Celere.          Ugo Tognazzi, storia nota, giunge alle scene dalla scuola del varietà, autodidatta, nessuna accademia, solo il suo talento, l’indole, la voglia matta, così come un film a venire, di chiudere con il ricordo della guerra, consegnarsi a una professione ludica, poi, come bagaglio somatico, mimico, un volto, una faccia all’apparenza anonima, da assicuratore, come già suo padre.

Dapprima in coppia con Raimondo Vianello nella finestrella televisiva in bianco e nero dei primissimi anni Sessanta. Che piccino scandalo lo sketch dove ironizzavano sul presidente della Repubblica, Gronchi, caduto dalla sedia durante un ricevimento ufficiale con De Gaulle, oppure quell’altro, comicamente irrefrenabile, del tronco d’albero dal quale si ricava un solo stuzzicadenti, il “troncio” dell’immaginaria Val Clavicola.

    E commediole da visione pomeridiana tra porta carraia, garitta e pontile di Capitaneria, come “Marinai, donne e guai”, così nel 1958, o sempre lui in divisa fante o da pompiere insieme a Walter Chiari, altro immenso autodidatta.

    La pellicola che lo ha reso però popolare, prossimo al pubblico, è “Il federale” di Luciano Salce, commedia dolce-amara, anno 1961, dove si racconta il passato ancora prossimo del fascismo, Tognazzi sul sidecar: “… buca, buca, sasso, buca con acqua, buca con fango”. Tognazzi antieroe, i tratti del volto declinanti, l’aria tra bastonato e scafato, o magari più semplicemente scettico. 

    Troneggia ancora nel personaggio di Gigi Baggini - “… facce er treno!” - in “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli, del 1965, semplice cameo che in verità diventa una struggente Iliade degli sconfitti, del cinismo crudele altrui. O la straordinaria prestazione ne “I mostri”, dove è Enea Guarnacci, derelitto impresario di pugili altrettanto anime morte, tra rimpianto dei ring di quartiere e la spiaggia di Ladispoli. Struggente e immenso nel finale accanto a Vittorio Gassman-Artemio Altidori ormai in sedia rotelle, Enea gli gira intorno con un aquilone, pochi passi appena; stenografia gestuale del dolore e del disincanto.

    Poi le vette di un cinema paradossale, grottesco, forse anche metafisico, così torna al Marco Ferreri di “La donna scimmia” insieme a una barbuta Annie Girardot: eccoli nei vicoli di Napoli mentre intonano “La novia”, un brano di quei giorni, nella crudeltà del paradosso. Impossibile da dimenticare ancora ne “La marcia su Roma”, nuovamente accanto a Vittorio Gassman.

    Tognazzi, in parte si è già detto, è forse stato l’unico grande interprete del nostro cinema a concedere se stesso a una filmografia “concettuale”, proprio con l’esperienza che lo mostra complice, maschera, feticcio, volto di Marco Ferreri; così come Marcello M. lo è stato di Federico F.

    Neppure bisognerà dimenticare il suo contributo alla commedia “civile”, è il caso di “In nome del popolo italiano” (1971) di Dino Risi, film ultimativo di un genere già a colori, o l’inenarrabile parodia del golpe Borghese, “Vogliamo i colonnelli” (1973) di Mario Monicelli, e “Romanzo popolare” dell’anno successivo, un piccolo capolavoro. Oppure tornando indietro “La vita agra” dal romanzo di Luciano Bianciardi.

    Bisogna però pensare a “La grande abbuffata” per registrare il suo unicum espressivo, ancora Marco Ferreri. Peccato, che per molti Tognazzi sia soprattutto il conte Mascetti a “Amici miei”, il tormentone della “supercazzola”, entrato perfino nel lessico giornalistico e da baretto, film che lo stesso Monicelli, dopo averlo ereditato da Germi, riteneva non meritevole di del successo popolare ottenuto.

Tognazzi si racconta da regista nel cupo “I viaggiatori della sera” (1979), di cui l’amico Raimondo Vianello disse: “L’abbiamo visto soltanto io e lui”. E ancora, tra i successi al botteghino, la commedia “Il vizietto” (1978), pessima traduzione del titolo originale francese, “La cage aux folles”. E stavo dimenticando, restando nella metafisica kafkiana, un piccolo gioiello come “Il fischio al naso” tratto da Dino Buzzati. Oppure “La terrazza” di Ettore Scola, “Casotto” di Sergio Citti…

Infine “I nuovi mostri” (1977), dove Tognazzi nell’episodio “Hostaria!” è un cuoco gay, irresistibile la sequenza della lite in cucina con il fidanzato “bujaccaro” interpretato Vittorio Gassman, tra improperi - “ma vada via il cul…” - e colpi di mattarello, apologo d’amor frociale avanti lettera in un contesto di popolo inenarrabile davanti al menu che innalza la “pasta alla porcara”. Lo rammentiamo poi in “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, nel ruolo del sarto muto Umberto Ciceri, una grande prova di mimica. 

   Nell’ideale cine-mondo che altrettanto accompagna la sua avventura pubblica e insieme privata vive invece nell’età dell’oro mondano del “Villaggio Tognazzi”, laggiù a Torvaianica: i tornei di tennis, il trofeo dello Scolapasta d’oro, le gare ciclistiche; i suoi ragazzi, Ricky, Gianmarco, Thomas, Maria Sole quando raccontano papà sempre lo chiamano “Ugo”, i colleghi amici, Luciano Salce, Paolo Villaggio, Monicelli… 

    Perfino la volta in cui si rese complice dei “compagni” del giornale satirico “Il Male” che titolò “Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate rosse!” con tanto di foto del suo presunto arresto con Sergio Saviane nella parte del commissario e Vincino in divisa di carabiniere a trattenerlo, Tognazzi portato via dalla sua cucina, ancora addosso la parannanza. Qualcuno credette davvero che quelle false prime pagine esposte nelle edicole corrispondessero al vero.

   La sua passione per cucina coltivata nella casa di Velletri di cui prosaicamente si narra altrettanto sempre, che trova la sua summa editoriale in una raccolta di pietanze, “Il Rigettario”, ogni menù disegnato da lui stesso con i pennarelli colorati. Ricky, nello straordinario documentario che gli ha appena dedicato, ne racconta i giorni dolenti, gli ultimi, la depressione, la sensazione che il mondo del lavoro cinematografico si fosse dimenticato di lui, rimosso. Poco prima di lasciarci a soli 68 anni nell’ottobre del 1990.     Lo ricordiamo seduto, immobile, silenzioso all’“Hemingway”, giorni romani, l’ultimo soffio di vita mondana conosciuta a Roma, nell’oro della pace serale dei tardi anni Ottanta, lui dolente nel brillio tutt’intorno. 100 anni oggi; Ugo, la storia del nostro cinema.