la Repubblica, 23 marzo 2022
Lega alla vaccinara
Oggi il menu della politichetta presenta Lega alla vaccinara, nel senso che per la prima volta il Consiglio federale degli ex lumbard è stato convocato in un posto che più Roma non potrebbe essere. Là dove dall’autunno del 2020 si dà vita alla “Belva” salviniana – che il dio degli scandaletti rivelatori l’abbia in gloria – comunque a fianco dei ruderi della Porticus Minucia e davanti al museo sotterraneo della Crypta Balbi, lungo via delle Botteghe Oscure, già storica sede del Pci e altrettanto antica testata diretta da una intelligente nobildonna, Marguerite Caetani.
Se si pensa al modesto paesaggio di via Bellerio, con l’altarino del Capitano ingombro di icone sacre e ritrattini di Putin, viene un po’ da piangere, un po’ da ridere e un po’ da pensare a come cambiano le cose, e nella Lega vertiginosamente. Il fatto che si tratti di una riunione in gran parte da remoto rende l’evento ancora più simbolico e la capitolazione definitiva.
Si ricorderà lo slogan: “Roma ladrona, la Lega non perdona”.
Ebbene, forse anche perché un po’ ladrona, ma soprattutto perché ha dalla sua il tempo lunghissimo della storia, Roma non solo perdona tutto, ma lascia anche che le sue vendette accadano più o meno avvertitamente, per cui anvedi il raduno leghista in pieno centro.
A suo modo il vecchio Bossi lo sapeva e così, entrati in Parlamento nel 1992 un bel numero di leghisti, «siamo un popolo in guerra e pianteremo le nostre tende» eccetera, diede l’ordine di reperire una specie di falansterio con camerate e pasti in comune con il dichiarato scopo di estraniare i suoi rudi guerrieri dalle mollezze e dalle tentazioni dell’Urbe. Inutile dire che il proposito fallì miseramente col risultato che le lusinghe della capitale e le bramosie dei conquistatori si combinarono al meglio, il soggiorno dei lumbard venne di molto addolcito e lui stesso finì per essere invitato dalle astute e turpi signore dei salotti, eccitatissime nel ricevere finalmente il capo dei Barbari di cui si diceva che non si lavava, ruttava a tutto spiano e inzuppava i grissini nella cedrata Tassoni.
Ora tutto questo è finito addirittura nelle serie televisive ( 1992 e 1993 per Sky). Ma quando per convenienti ragioni di posizionamento elettorale e suggestioni megalo mitico e cialtronesche gli prese il trip celtico e padano, il Senatùr intensificò la corda anti-romana producendosi in siparietti che i più attempati osservatori della politica – in realtà di quello che stava diventando – ricordano ormai con rassegnata benevolenza. Tipo insorgere dopo che Papa Wojtyla aveva pronunciato una frase in romano («Damose da fa’»); o fare gestacci, tiè, quando nell’inno di Mameli risuonava «ch’è schiava di Roma»; oppure quando, per opporsi al Gran Premio nella capitale, come in terza elementare declinò SPQR in “Sono Porci Questi Romani” (Alemanno sindaco la prese così a cuore da organizzare l’indimenticabile tavolata di rappacificazione pajata-polenta sotto Montecitorio).
Ogni tanto Bossi minacciava una marcia su Roma. Nel dicembre del 1999 venne infine affittato un treno, il “Nerone Express”, in tal modo dedicato all’imperatore cui si attribuisce l’incendio, ma tanto per cambiare la marcia si risolse in una surreale scampagnata nell’insuperabile indifferenza dei romani, da una ventina di secoli adusi a qualsiasi invasione, ma anche a qualsiasi cedimento.