Avvenire, 23 marzo 2022
Tognazzi e la classe di ferro del 1922
Forse l’unico aspetto non ancora indagato intorno al centenario della nascita di Ugo Tognazzi che cade oggi, 23 marzo, è la fantastica concentrazione di talenti che a buon diritto possiamo definire come membri della “classe di ferro del 1922”. Per il resto che dire? L’hanno già detto che Ugo Tognazzi è stato l’attore meno italiano della commedia all’italiana, «il più francese, grazie a film come La donna scimmia e La grande bouffe di Marco Ferreri» (a Parigi Ferrerì, ma era nato a Milano, nel 1928)? Bien sûr! E che per uno scherzo del giornale satirico il Male Tognazzi passò per il capo delle terroristiche Brigate Rosse, e che quello parve uno scherzo degno di un suo personaggio, il conte Lello Mascetti, nel monicelliano Amici miei? Ma sì che l’hanno già scartabellato. Come non possono aver tralasciato il fatto che, questo signore della risata – ma non solo –, che nella sua costituzione fisica ed esistenziale rivendicava il «diritto alla cazzata», è stato un autentico genio della recitazione.
Tutto scritto e sottoscritto, registrato e filmato, in un fiume in piena di ricordi storici, enogastronomici (stile Ugo al sugo) e famigliari. L’ultimo amarcord domestico, in ordine di apparizione: La voglia matta di vivere, documentario diretto da uno dei quattro figli, Ricky Tognazzi (da vedere su Rai-Play). Così come sono stati rivisitati in quest’anno solare di celebrazioni per il 100°, i mille volti della maschera più anarchica del nostro cinema. Non a caso Tognazzi prestò il suo volto, unico e inconfondibile, oltre a quella voce pastosa, intrisa di sigarette e rosso della tenuta di Velletri (la Tognazza) al personaggio di Luciano Bianchi, de La vita agra.
Romanzo e caso editoriale del 1962, La vita agra è la storia autobiografica, e per l’epoca scandalosa (condanna per bigamia), scritta dal più anarchico dei nostri narratori e saggisti, Luciano Bianciardi. Coscritto dell’Ugo anche il visionario grossetano Bianciardi (nato il 14 dicembre 1922), uno che sulla pagina sapeva essere lucidamente profondo e corrosivo quanto il Poeta di tutte la arti, Pier Paolo Pasolini, altro “ragazzo” – ampiamente celebrato – del ’22. E anche la versione cinematografica de La vita agra è opera di quel signore della regia che è stato Carlo Lizzani, classe 1922 – (il suo centenario cade il 3 aprile). Lizzani non ebbe esitazioni nello scegliere l’irriverente Tognazzi che meglio di ogni altro attore conosceva il bianciardiano Bar Jamaica, luogo di incontro della bohéme di Brera. «Tognazzi era un attore di tutto rispetto, sentiva di avere bisogno di sceneggiatori e registi adeguati al suo talento e si comportava di conseguenza. Credo che se si fosse trovato a esordire nel cinema di oggi dopo i primi sketch di successo in teatro o in televisione avrebbe trovato subito un produttore che gli avrebbe imposto di dirigersi da solo in un film, senza badare troppo alla trama ed al contesto», disse Lizzani in memoria di Ugo, prima di andarsene anche lui, nel 2013.
Il 7 maggio saranno anche i 100 anni della nascita del primo grande partner artistico di Tognazzi, Raimondo Vianello. Prima dell’amata compagna di vita e di scena, Sandra Mondaini, per Raimondo c’è stato il fraterno Ugo. «Tra noi c’era una complicità continua che ci faceva rischiare, anche perché noi scoppiavamo a ridere mentre l’interlocutore ci parlava… La nostra fu davvero una bella coppia, e una solida amicizia», ricordava nostalgico Raimondo alla perdita dell’amico e sodale di quella coppia irresistibile che, per classe, eleganza e phisique du role è paragonabile a quella americana formata da Jack Lemmon e Walter Matthau. Il duo Tognazzi-Vianello nacque nel 1951, quando Ugo per la sua compagnia teatrale era alla ricerca di un attore alto, biondo, misurato, ma caustico, al limite del cinismo. Scelse così quel corazziere romano dall’aspetto british che proveniva da una famiglia di alto lignaggio: papà Guido Vianello ammiraglio e la madre, la marchesa Virginia Accorretti. Assieme saranno i pionieri del varietà televisivo della Rai che, nel 1953, li porterà al culmine del successo nazionalpopolare con Un, due, tre. Un trionfo con milioni di telespettatori incollati allo schermo, in bianco e nero, che rimandava le trovate geniali e le macchiette del costume dell’Italietta postbellica studiati e cuciti addosso – da Scarnicci e Tarabusi – a questi due istrioni, fermati nella loro irrefrenabile ascesa televisiva soltanto dallo “scandalo” del 1959. La censura di Stato bloccò una scenetta assolutamente innocente che voleva essere la parodia dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Gronchi, il quale, nel sedersi in un palco della Scala a Milano, accanto al Generale De Gaulle in visita nel nostro Paese, cadde in terra, perché un ignoto alle sue spalle gli aveva tolto la sedia. Tognazzi e Vianello pagarono l’affronto con vent’anni di ostracismo dalla Rai – rientrarono con il varietà Milleluci (1974) – ma continuarono a ridere tanto e a far divertire sempre di più il pubblico in sala, recitando in coppia in 22 film.
Due anni dopo lo scandalo Rai, nel 1961, Tognazzi ottiene un grande successo personale interpretando il graduato della Milizia, Primo Arcovazzi, neIl federale. Pellicola diretta magistralmente dall’altro classe di ferro del ’22 Luciano Salce (il 25 settembre il suo centenario). Un film amaro Il federale in cui emerge sempre più l’eclettismo di Tognazzi e inoltre segna anche il debutto di Ennio Morricone come compositore di musiche da film. Con Salce, Tognazzi concede il bis nel ’62 ne La voglia matta e poi con la commedia brillante L’anatra all’arancia (1975) in cui figura nella “coppia infedele” con la straordinaria Monica Vitti che ci ha da poco salutati. Dopo di che, Salce si dedicherà alla saga di Fantozzi dirigendo l’altro Ugo, il ragioniere più sbrindellato d’Italia, ideato dall’altra mente geniale di Paolo Villaggio. Un “giovane”, classe 1932, Villaggio era ospite fisso delle mitiche cene dei “Dodici apostoli” organizzate dallo chef futurista Tognazzi nella sua villa di Torvajanica. Oltre a Villaggio, Monicel-li, Vianello e gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi, tutti commensali fissi, per le grandi occasioni al tavolo dei “Dodici” si accomodava anche l’altro “fratello di set”, Vittorio Gassman.
Da figli del ’22, non potevano che essere loro, Ugo e Vittorio, i protagonisti de La marcia su Roma. Film dell’immenso Dino Risi, che nel 1962 battezzò la nuova coppia di celluloide Tognazzi- Gassman. Due “colonnelli” del cinema italiano che con Risi diedero prova in quattro film (dei sette girati in coppia, l’ultimo nel 1980, La terrazza, regia di Ettore Scola) della loro “mostruosità”. Un consiglio a tutti i giovani, specie quelli aspiranti attori e registi: andarsi a vedere l’episodio La nobile arte di Risi ne I mostri (1963) e concentrarsi sui tic, le camminate e i tempi comici dei due protagonisti. Enea Guarnacci ( Tognazzi), organizzatore di incontri pugilistici che ormai ridotto alla canna del gas per rientrare nel giro propone un match praticamente impossibile da far sostenere all’amico, il pugile suonato e ritiratosi da tempo, Artemio Altidori (Gassman). Nel finale, i segni premonitori di quell’ultima perla della commedia all’italiana che è Amici miei (1975) di Mario Monicelli.
Nell’allegra brigata di Amici miei figura il medico chirurgo professor Alfeo Sassaroli, alias Adolfo Celi. Un mito da riscoprirecome recita il titolo della biografia per immagini (Scuola Nazionale di Cinema) di Adolfo Celi, messinese di nascita, nato il 27 luglio 1922 – figlio di Giuseppe, ex Senatore del Regno e di Giulia Mondello – arrivato a Roma a vent’anni per fare l’attore. Compagno d’Accademia dei coscritti Gassman e Salce oltre che dei registi Luigi Squarzina e Luciano Lucignani, Celi il meglio della sua creatività lo espresse in Brasile dove si recò nel ’49 al seguito di Aldo Fabrizi che girava Emigrantes.
Folgorato da San Paolo, per quindici anni fu l’anima del TBC, il Teatro Brasileiro de Comédia e fondò la compagnia di prosa “Carrero-Celi-Autran”. Tornato in Italia, Celi girò il suo unico film da regista L’alibi (1969) in co-regia con gli amici di sempre, Gassman e Lucignani. L’amico Tognazzi l’avrebbe ritrovato qualche stagione dopo per seguirlo in tutti e tre gli atti di Amici miei. Film metafora di una generazione attoriale, specie quella del ’22 ormai ricca e famosa. Condizione, la prima, che Ugo Tognazzi non ha mai avvertito, visto che al figlio Ricky che lo credeva ricco un giorno rispose: «Io sono un povero che mantiene una famiglia di ricchi».