il Giornale, 23 marzo 2022
Quel maleducato di Baudelaire
Maledetto Baudelaire!, di Jean Teulé (Neri Pozza, pagg. 317, euro 18, traduzione di Riccardo Fedriga) è un «romanzo», come viene definito in copertina, o una «biografia romanzata», come nella quarta della stessa lo presenta un breve estratto del quotidiano francese Libération?
La domanda non è banale, e ha a che fare con la disinvoltura con cui i romanzieri, partendo dall’idea che nulla gli sia artisticamente precluso, spaziano in campi che non dovrebbero essere i loro. Interrogato su cosa sia un romanzo, Julian Barnes ha risposto che è «il raccontare delle menzogne belle e ben confezionate che racchiudono verità crudeli e precise». Suo logico corollario è che i suoi protagonisti sono «gente che non esiste, non è mai esistita, e in caso contrario saremmo di fronte a loro semplici copie, simulacri convincenti per un breve lasso di tempo». Noi, dice in sostanza Barnes, crediamo che Emma Bovary viva e muoia, che Amleto uccida Laerte; non è mai successo, non sarebbe mai potuto succedere, «ma noi crediamo il contrario» e sta qui l’essenza del romanzo, la sua grandezza e la sua specificità. Nella sua Commedia umana, Balzac giunge a creare minuziosamente delle biografie immaginarie grazie alle quali riempie e spiega la vita reale della Francia del suo tempo, come se ci volesse dire: non ho bisogno di deformare e/o caricaturare l’esistente, la mia creatività basta e avanza. E vale di più.
Nei giorni scorsi, sul Corriere della sera, Romana Petri ha definito la «biografia romanzata un malinteso». Spesso, questa è la sua tesi, chi scrive «racconta la storia di persone che ha conosciuto o delle quai ha solo sentito parlare ma che hanno suscitato il desiderio di fare carta della loro vita». Sono persone non note, aggiunge, «dunque niente dubbi per nessuno: l’opera è certamente un romanzo». Ne deriva che «molti romanzi possono essere biografie romanzate nascoste» e quindi «è molto più semplice definire ogni opera narrativa un romanzo e lasciare le biografie a chi si attiene ai fatti, produce documenti e non si inventa nulla».
La soluzione è elegante, ma aggira l’ostacolo piuttosto che superarlo: in Maledetto Baudelaire! Teulé ringrazia, «per la loro collaborazione più o meno involontaria», biografi di Baudelaire quali Asselineau, Nadar, Gautier, Troyat, Pascal Pia, nonché critici vari e lo stesso Baudelaire... Più o meno surrettiziamente, ci vuole far capire che non si è inventato niente, pur se, in quanto romanziere, può legittimamente dire di essersi inventato tutto. È il Baudelaire di Teulé, insomma, ma il sottinteso è che quello è il vero Baudelaire. Ma è davvero così? E che senso ha un’operazione del genere?
Il filo rosso che guida questo romanzo e/o questa biografia romanzata, è l’eccesso, l’eccesso in tutto, va da sé, nell’ottica di una vita condotta all’insegna dell’oltraggio. C’è la gigantessa esotica, Jeanne Duval, c’è la sua preferenza per le donne «vili, sporche, mostruose», come Sarah la strabica, c’è lo sperpero dell’eredità paterna, e insieme l’abuso di droga, milleseicento gocce di laudano al giorno, anziché le sette prescrittegli dal medico per curare la sifilide, c’è la stravaganza del vestire e dell’apparire, boa di piume di struzzo fucsia al collo, una pecora rosa al guinzaglio... E naturalmente, c’è l’amore in eccesso per la madre, Caroline Archimbaut-Dufays, l’odio in eccesso per il patrigno, quel colonnello Aupick a cui avrebbe voluto sparare come a un coniglio durante le barricate della rivoluzione del 1848... Infine, c’è l’eccesso di morire «sfinito dalla fatica, dalla noia e dalla fame in una vita di miserie, dopo aver usato e abusato di tutto».
Esausto di eccessi, giunto all’ultima pagina il lettore chiude il romanzo. Sono duecento anni che Baudelaire è morto, non sarà un eccesso di troppo a preoccuparlo. Resta però il problema. Teulé ha scelto di romanzare Baudelaire: se non fosse così si sarebbe inventato qualcun altro, un altro poeta maledetto a cui dare un’anima e una vita proprie. Ma il suo Baudelaire è meglio dell’originale, di quello vero che emerge dalle sue poesie, dai suoi scritti, dalle sue lettere, di quello che chi lo conobbe ha ricordato, con tutti i difetti che ogni ricordo e ogni interpretazione porta con sé, ma senza la frenesia di inchiodarlo in un’immagine, una posa, un eccesso, appunto. La risposta, purtroppo, è no.
Intendiamoci, il libro non è brutto, Teulé conosce il mestiere, ma basta aprire i Fiori del male a caso per capire il perché. «Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres/ Adieu, vive clarté de nos étés trop courts»... Oppure: «La musique souvent me prend comme une mer!/ Vers ma pâle étoile, () Je mets à la voile». O ancora: «D’autre fois/calme plat, grand miroir de mon désespoir». E infine: «O Mort, vieux capitaine, il est temps! Levons l’ancre!/ Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons». Non c’è nemmeno bisogno di tradurre...
Più in generale, nulla nell’eccesso di Maledetto Baudelaire! eguaglia il ritratto dei Goncourt: «Senza cravatta, il collo nudo, la testa rasata, in una vera toilette da ghigliottinato, con una sola ricercatezza: le mani perfettamente lavate, curate, ripassate con l’allume». Né il ritratto fotografico di Nadar, con quegli occhi che, come ha ben scritto Gesualdo Bufalino, «ricordano il santo, lo spiritista e l’omicida: gli occhi, se vogliamo far nomi, del Loyola, di Mesmer, di Lacenaire»...
Puntando sull’eccesso e sull’oltraggio, Teulé dimentica oltretutto un aspetto per nulla secondario in Baudelaire, quel suo essere stato segnato dal massacro dei rivoltosi del ’48, quel suo essere stato un cittadino umiliato dalla restaurazione borghese di Napoleone III, un intellettuale, prima che un poeta, cresciuto fra utopisti, rivoluzionari, esoteristi, femmes galantes e pazzi di ogni genere, in una Parigi che il piccone demolitore di Haussmann andava mutando radicalmente nel nome di un capitalismo rutilante che un ventennio dopo si sarebbe infranto nella sconfitta e nella umiliazione di Sedan.
Allo stesso modo scompare il reazionario spregiatore del progresso positivista, «la fede nel progresso è una dottrina da pigri», il dandy nauseato dai manifesti, dalle cariche, dalla democrazia e dai governi di qualsiasi tipo, convinto che non esistessero che tre esseri rispettabili: «Il prete, il guerriero, il poeta. Sapere, uccidere e creare». Quanto al suo amore, un amore devoto, sino alla fine, per la bella e selvaggia, quanto ignorante Jeanne Duval, «la negresse», cosa lo spiega di più del suo: «Noi amiamo le donne quanto più ci sono estranee. Amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta».
Si dirà, ma questo è il tuo Baudelaire, non quello di Teulé. Nient’affatto, questo è Baudelaire. E non è una differenza da poco.