La Stampa, 22 marzo 2022
La tragedia dei Donat-Cattin
Mercoledì 7 maggio 1980 il quotidiano Paese sera esce col titolo in prima pagina: «Il figlio di Donat-Cattin fa parte di Prima linea». È l’inizio di uno scandalo di dimensioni potenzialmente devastanti, esploso nel cuore della Prima Repubblica. Carlo Donat-Cattin è il potentissimo vice-segretario della Democrazia Cristiana. Ha appena scritto il Preambolo alle tesi congressuali del partito, con cui è stata decretata la fine del «compromesso storico», in un Paese ancora stretto nella morsa del terrorismo. Che il figlio Marco sia un militante di una delle più note formazioni della lotta armata è di per sé sconvolgente. Ma non finisce lì.
Pochi giorni più tardi, il 16 maggio, la Procura di Torino trasmette alla Presidenza della Camera i verbali d’interrogatorio di Roberto Sandalo, un altro membro di Prima linea, amico del cuore di Marco, arrestato il 29 aprile, da cui risulta che Carlo Donat-Cattin avrebbe saputo della situazione giudiziaria del figlio direttamente dall’allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, in un incontro riservato. Che la seconda carica dello Stato risulti imputabile di favoreggiamento nei confronti del figlio di un altissimo dirigente del suo partito configura le condizioni per cui quel vulnus giunga a colpire lo stesso «cuore dello Stato» con effetti persino più distruttivi del fuoco delle Brigate Rosse. Tanto più che nel frattempo Marco Donat-Cattin è raggiunto da un mandato di cattura per l’assassinio del giudice milanese Emilio Alessandrini.
Le sedute della Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa (il cosiddetto «tribunale dei ministri»), di fronte alla quale il capo del governo è chiamato a rispondere come imputato, tra la fine di maggio e la fine di luglio, metteranno in scena tutti gli aspetti di quello che Eugenio Scalfari definì come «uno scandalo senza precedenti». Il quale tuttavia non ebbe tutta la assorbente visibilità che la cosa in sé avrebbe meritato solo perché inserito in una serie terribile di eventi che finirono per relativizzarne l’impatto: è del 28 maggio l’omicidio a Milano del giornalista Walter Tobagi, il 23 giugno a Napoli è assassinato dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, la strage di Ustica, con i suoi 81 morti, è del 27 giugno, mentre quella alla stazione di Bologna (85 morti, 200 feriti) segna l’inizio di agosto… Così, quando il 31 maggio, la Commissione a maggioranza risicata (11 contro 9) e poi il 27 luglio l’ Aula (507 contro 416) scagionano il capo del governo dall’accusa di favoreggiamento, il rumore mediatico è relativamente contenuto. Cossiga farà ancora in tempo a diventare presidente del Senato e poi il presidente della Repubblica «picconatore» che tutti ricordano. Per Carlo Donat-Cattin, invece, di fatto la carriera politica finirà lì, inchiodato alla sorte di quel figlio con cui non era mai andato d’accordo.
Sotto il profilo strettamente politico la riflessione potrebbe chiudersi così. Uno dei tanti esempi di malapolitica da «Prima Repubblica». Ma in realtà il «caso dei Donat-Cattin» (padre e figlio) è un viluppo di problemi più profondi, di questioni più «ultime», attinenti ai temi della vita, della morte, del dolore, del senso e del non-senso, del rapporto tra le generazioni naturalmente, come suggerisce il titolo del libro di per sé evocativo di tragedia: Il figlio terrorista. «Nodi» che l’autrice Monica Galfré rivisita con competenza e sensibilità, affidandosi alle fonti con acribia da archivista ma anche all’intuito e alla capacità di compassione indispensabili quando si costeggiano abissi di questa profondità.
In primo piano il livello più «visibile» della vicenda, quello processuale, con un focus importante sul passaggio parlamentare («La repubblica sotto processo» è il titolo del capitolo), da cui emergono, con drammatica evidenza, le due «culture politiche» a confronto: da una parte quella democristiana, segnata dall’attenzione alla dimensione umana del dramma del proprio vice-segretario, in forza dei rapporti di amicizia ma anche della centralità che la «famiglia» – con i suoi affetti e i suoi difetti – ha nell’universo valoriale identificante; dall’altra quella comunista, del Pci berlingueriano, che utilizzò il caso per un attacco frontale, catafratta nell’affermazione intransigente del rilievo pubblico (già sperimentata nel corso del rapimento di Aldo Moro) e del primato dello Stato come istituzione «fredda».
Ma poi, come secondo cerchio, il livello più intimo del rapporto «padre/figlio»: di quel padre così assente, tutto assorbito dalla vita politica romana, e così inarrivabile nella sua statura di leader nazionale; di quel figlio così bello, e ribelle, intreccio di vitalismo e di incostanza. E, attraverso quella coppia, la questione più generale del rapporto tra le generazioni in un’epoca di sconvolgimento delle relazioni fondamentali, in cui la modernizzazione tardiva del Paese, brutale e rapida («il crollo finale della società patriarcale»), ha lacerato consolidati legami, strutture elementari come la famiglia, mondi affettivi consolidati e violati da una tempesta di cui il Sessantotto fu la cornice. E in cui un Edipo scatenato fece, per una feroce parentesi, terra bruciata di un intero repertorio di regole, sentimenti, umanità accumulati nel ciclo lungo della civilizzazione.
Infine c’è la galassia ampia, incandescente e avvelenata, del movimento diffuso della lotta armata, col suo reclutamento di massa, i suoi giochi di morte, i meccanismi dell’emulazione e dell’iniziazione, i corpi di un nemico neppure conosciuto usati come «tragici trofei» per segnare il territorio, misurare rapporti di forza tra micro-sette, dimostrare a se stessi di esistere perché capaci di uccidere. E la domanda sul come, e il perché tanta parte di quella gioventù sospesa tra due tempi in rapido distanziamento vi si sia arruolata, da un certo punto in poi prigioniera di un presente in cui contava solo l’atto, l’azione sempre più violenta, fino all’omicidio, bruciando in pochi anni tutte le tappe di un «carnivoro cupio dissolvi». L’autrice cita, più volte, il motto di La Rochefocauld ripreso da Elias Canetti: «Due cose non si possono guardare in faccia: il sole e la morte». Marco Donat-Cattin (e alcuni come lui) la morte, la morte degli altri da loro provocata, riuscirono a guardarla solo «dopo», dalle sbarre di una cella. La sua dissociazione fu autentica, così giudicò il tribunale. E «dignitosa», aggiunge l’autrice. Nonostante la lunga serie di reati, anche gravissimi, la sentenza sarà mite. La vigilia di Natale del 1987 uscì in libertà provvisoria.
Ma ne godrà per poco. Meno di sei mesi dopo, il 19 giugno del 1988, morirà, sull’autostrada Serenissima, mentre tentava di aiutare una donna vittima di un tamponamento. «La morte ha riportato Marco a casa», commenterà qualcuno al funerale. E forse è una verità più profonda di quanto sembri.