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 2022  marzo 22 Martedì calendario

La fuga degli investitori dalla Cina

Taipei
Scandalose, irragionevoli, dannose per tutti. Sono alcuni dei modi in cui la Cina ha descritto le sanzioni imposte da Stati Uniti e democrazie liberali alla Russia per l’invasione in Ucraina. Alla base, oltre a ragioni retoriche, c’è il timore di Pechino di finire nel mirino di sanzioni secondarie. Il commento di ieri del ministro degli Esteri della Lituania lascia presagire confusione sotto il cielo: «L’Ue dovrebbe chiarire che i paesi terzi che aiutano la Russia saranno colpiti dalle stesse sanzioni adottate contro Mosca». E la situazione è tutt’altro che eccellente per il Partito comunista, che si avvicina al cruciale XX Congresso del prossimo autunno circondato proprio da ciò che odia più di tutto: instabilità.
Prima la guerra, poi il ritorno del Covid-19, con nuovi lockdown che hanno coinvolto anche la megalopoli Shenzhen, la “Silicon Valley cinese”. La strategia “zero contagi” di Pechino ha tenuto finora sotto controllo la pandemia ma ha depresso i consumi. Il conflitto si è innestato su uno scenario volatile, con la fiducia degli investitori già messa a dura prova dall’imponente campagna di rettificazione di Xi Jinping sul settore privato, in primis le Big Tech. Per non parlare della crisi immobiliare e l’aumento dei prezzi delle materie prime. Ipotetiche sanzioni completerebbero quella che diversi analisti hanno definito «tempesta perfetta». Una tendenza già in atto sembra prendere maggiore velocità: la volontà dei Paesi occidentali e asiatici di diversificare e ridurre la dipendenza da Pechino. «Se dal conflitto dovessero emergere due blocchi contrapposti ci sarebbero forti ricadute sulla cooperazione economica con la Cina», spiega l’analista di Ispi Filippo Fasulo. «Tra i temi in discussione non c’è solo il disaccoppiamento con l’economia cinese ma anche la biforcazione tra le attività in Cina per la Cina e quelle nel resto del mondo per i mercati globali. Se le sanzioni dovessero colpire Pechino i piani di crescita di Xi si complicherebbero», dice Fasulo.
La situazione sta già avendo effetti sugli investimenti esteri. Come segnalato dal Financial Times, gli investitori stranieri hanno scaricato un valore record di 6 miliardi di dollari di azioni cinesi nei primi due mesi e mezzo del 2022. Un andamento in netto contrasto con lo stesso periodo del 2021, quando gli afflussi erano stati superiori a quanto si sta perdendo ora. L’indice Csi delle borse di Shanghai e Shenzhen è appena il 4% al di sopra di fine 2019, mentre nello stesso lasso di tempo gli americani S&P 500 e Nasdaq Composite sono cresciuti del 37 e del 52%. J.P. Morgan ha declassato tutti i titoli cinesi nel settore digitale, sconsigliando investimenti per i prossimi 6-12 mesi. Gli investimenti locali sono risaliti dopo che il governo ha anticipato che avrebbe adottato una serie di misure favorevoli al mercato. Ma le partecipazioni straniere in azioni quotate continuano a soffrire.
Il vicepremier Liu He, braccio destro di Xi, ha assicurato che verranno adottate misure per rilanciare l’economia. Le ricette, però, sono sempre le solite. A partire dagli investimenti a debito sulle infrastrutture, risposta che può funzionare soprattutto nel breve periodo. Per passare poi a un congelamento dei programmi di riforma: stop alla tassa sulla proprietà per provare ad alleviare la stretta sul settore immobiliare, inversione in direzione del carbone sulla già accidentata strada della transizione energetica. Il tutto mentre si cerca di accelerare su una sorta di autarchia economica che possa schermare Pechino dalle turbolenze commerciali e geopolitiche esterne. Impresa complicata, visto che i capitali e la tecnologia occidentali sono ancora essenziali per la Cina, nonostante gli sforzi tesi a raggiungere l’autosufficienza. «La Cina non può svilupparsi da sola e il mondo non può svilupparsi senza la Cina», aveva detto lo scorso novembre il vice presidente Wang Qishan. Un assunto che potrebbe presto essere messo almeno parzialmente alla prova.