La Stampa, 22 marzo 2022
Russi dissidenti a Mosca, criminali all’esterno
«Non potrò tornare nel mio Paese, per anni forse. E qui, in Occidente, resteremo sempre dei criminali. Ci metteremo decenni a farci perdonare quello che abbiamo fatto». Irina è fuggita da Mosca con uno degli ultimi aerei dell’Aeroflot per Istanbul, da lì ha preso un volo per Copenaghen, ha subito un estenuante interrogatorio all’ingresso in Europa, per dimostrare che non era una esponente del regime di Putin in fuga dalle sanzioni. Rilasciata finalmente, è entrata in un negozio per comprare una bottiglia di vino: «Non riuscivo a dormire, avevo davanti agli occhi le bombe che cadevano sull’Ucraina, e nelle orecchie la voce del poliziotto danese che mi chiedeva se sostenevo quella guerra». Alla cassa, ha scoperto che la sua carta di credito di una banca moscovita aveva già smesso di funzionare: «Il proprietario me l’ha regalata. Mi ha detto che ne avevo bisogno. Un momento che ricorderò per tutta la vita: io, appena fuggita dal mio Paese, con in mano una bottiglia di vino che non posso pagare, e un danese che ha pietà di me, nonostante io sia russa».
Irina a Mosca aveva una galleria d’arte, ma faceva parte di quella «quinta colonna» di russi che Putin accusa di essere «mentalmente di là», in Occidente. Non solo mentalmente, ora: «Non posso vivere in un Paese dove non ho diritto a dire quello che penso. I miei genitori non lo capiscono. E non capiscono che mi vergogno a essere russa». Una parola che viene pronunciata, tra i pochi e i primi, da Yuri Dud, il video blogger più popolare tra i giovani, che confessa di provare verso l’Ucraina «vergogna e colpa», e raccoglie un milione e 100 mila like su Instagram, e migliaia di insulti. Poi arriva il turno del rapper Face, che dichiara – dopo essere emigrato – di non considerarsi più cittadino russo, di assumersi la colpa della guerra insieme alla «maggior parte del popolo e a tutta intellighenzia», e chiede scusa «a tutto il popolo ucraino… perché qualcuno deve farlo, e tocca a me».
Vergogna, colpa, scuse: parole assenti dal vocabolario non solo politico della Russia, che ora lacerano il suo senso di superiorità morale. Mentre star del regime come l’attore Vladimir Mashkov fustigano i «servi dell’Occidente» ed esaltano «l’orgoglio russo», le bombe sul teatro e l’ospedale di Mariupol rendono impossibile non interrogarsi sulle responsabilità collettive. Lo slogan «Putin non è la Russia», che aveva riempito le bacheche anche di molti figli della nomenclatura putiniana, non basta più. Qualcuno deve aver sganciato quelle bombe, puntato quei missili, sparato su quei profughi, e il giornalista Vladislav Davidzon brucia il suo passaporto davanti all’ambasciata russa di Parigi, mentre gli ucraini sbeffeggiano sui social gli amici russi che gli scrivono in privato di vergognarsi del loro Paese: «Dillo ad alta voce, scendi in piazza, mandaci aiuti, fai qualcosa», si indigna Alyona Zhuk, giornalista e illustratrice di Kiev.
La paura è una spiegazione, ma non basta: «Vedo i miei concittadini affollarsi nei negozi per l’ultimo iPhone, e piangere per la chiusura di Instagram, e poi avere paura a scrivere su Facebook, mentre gli ucraini non temono di fermare a mani nude i carri armati russi», si rammarica Vladimir, professore di un’università statale che con la guerra ha preferito riparare a Berlino. «Non ho più speranze, la democrazia in Russia non è possibile. E non so se mai riuscirò a tornare a insegnare la letteratura russa con lo stesso orgoglio», confessa.
Colpa del popolo ignorante, un altro classico dell’intelligenzia russa, e i lamenti che accompagnano questo nuovo esodo sembrano ripetere quelli di cento anni fa, quando i bolscevichi mandavano in esilio i «piroscafi dei filosofi». Maxim Trudolyubov, ricercatore all’istituto Kennan di Washington, inizia però prudentemente un dibattito sacrilego fino a un mese fa, sulla «tendenza della cultura russa di chiudersi in se stessa, di peccare di narcisismo e arroganza verso gli altri popoli». I miti della grande letteratura, del miglior balletto, della lingua più ricca, scrive sulla newsletter Kit, hanno alimentato l’idea di «una grandezza data per scontata», ma oggi l’identità russa si scopre basata semmai «sul complesso di grandezza», mentre il diritto a stare dalla parte giusta passa a quegli ucraini disprezzati perfino dal dissidente e poeta Nobel Iosif Brodskij, che gli dedicò una poesia offensiva.
E mentre Volodymyr Zelensky continua a rivolgersi ai russi in russo, e ad applaudire i pochi che sfidano il regime di Putin, molti ucraini di lingua russa passano alla lingua di Stato, e la distinzione di colpe individuali diventa sempre più faticosa di fronte alle folle che acclamano Putin, per convinzione, per paura o per costrizione, visto da Mariupol non fa una grande differenza. Nastia Kadetova, collaboratrice di Alexey Navalny di Pietroburgo, diffonde i video dei bambini estratti dalle macerie di Kharkiv: «È dura da guardare, ma dobbiamo farlo per accumulare rabbia verso i dementi che hanno coinvolto il nostro Paese in un crimine mostruoso». La speranza è quella di rompere l’incantesimo della propaganda, svelare la realtà. Da quel processo iniziò la perestroika, e la fine dell’Urss tanto rimpianta da Putin. Ma è faticoso, quasi insopportabile: «La Russia bombarda mia madre», ripete quasi inebetito Oleg, un ucraino etnico con passaporto russo. Vive da anni a Praga, guarda in tv le bombe cadere su Kiev, e poi esplode in un urlo: «È tutto un fake! Dove sono i cadaveri? Dovrebbero essere tanti, non li vedo! È tutto falso!».
Una reazione di rifiuto, di fronte a un mondo che sta crollando. Quella Russia che «aveva salvato l’Europa dal male non esiste più, ora noi siamo quelli che hanno creato, o almeno non hanno impedito, un nuovo male. Siamo falliti come nazione», scrive il giornalista Ilya Krashilshik in un editoriale sul New York Times che ha fatto esplodere la polemica nell’intellighenzia emigrata. Mikhail Gorbaciov era riuscito nel miracolo di far emergere i sovietici dalle rovine del totalitarismo come vittime, e ogni discorso sul pentimento, l’elaborazione della colpa e l’ammissione della responsabilità era stato presto sommerso dall’offesa per essersi scoperti non più grandi, di aver perso l’impero, di essere stati rimandati alla scuola della civiltà. I russi non hanno mai chiesto scusa per aver invaso polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi, finlandesi. Dovranno farlo ora con gli ucraini, e la critica televisiva Ksenia Larina dice che dopo la guerra i russi «dovranno essere portati sulle rovine dell’Ucraina, per vedere con i loro occhi, come si era fatto con i tedeschi». Il paragone viene finalmente reso esplicito, insieme alla fine dell’illusione che un totalitarismo possa ravvedersi da solo, e Larina chiede una «denazificazione, una deputinizzazione di un Paese impazzito». Ma accanirsi contro il regime non basta, è un modo per sentirsi di nuovo vittime, avverte Krasilshik, mentre è arrivato il momento di crescere, di assumersi la propria responsabilità, di ammettere le colpe e di guadagnarsi il perdono. Una nuova Russia, se un giorno nascerà, potrà ripartire solo da quel senso di vergogna che oggi il dittatore le proibisce di provare. —