la Repubblica, 22 marzo 2022
Intervista a Jake Gyllenhaal
PARIGI – A salvare il cinema in sala scendono in campo registi dei blockbuster anni 90. A stretto giro, ecco in sala Moonfall del catastrofista Roland Emmerich, ma soprattutto lo spettacolare Ambulance di Michael Bay (dal 23 con Universal), per il quale il regista di The Rock e della saga Transformers ha arruolato il divo Jake Gyllenhaal. La première parigina segna anche il ritorno in grande stile alle attività internazionali in presenza, dopo la lunga stagione delle interviste virtuali. C’è una grande gioia nel ritrovarsi a parlare di cinema faccia a faccia da parte di tutti. Michael Bay scherza: «Ma lei è qui in carne ed ossa?» e lo stesso vale per gli attori.
Ambulance è la storia di due fratellastri: uno ha servito il Paese come soldato, ora l’assicurazione non copre le spese per l’operazione sperimentale della moglie; l’altro ha ereditato l’attività del padre, famigerato rapinatore, e lo coinvolge in un colpo in banca a Los Angeles, che va male. I due fuggono in ambulanza, in ostaggio hanno un poliziotto gravemente ferito e un’infermiera. Il film, girato durante la pandemia, è un giocattolone immersivo, esplosioni e sparatorie, anche se il regista non rinuncia alla zampata critica sulla fine del sogno americano e sui comportamenti discutibili della polizia.
Bay è un regista da grande incasso poco amato dai critici. Lei però è un suo fan.
«Credo ci sia un pregiudizio rispetto ai film action, come se la qualità della recitazione contasse meno. Ho lavorato in film diversissimi, amo quelli di Bay perché ci trovo inaspettate profondità. Mi ha intrigato dai tempi di The Rock. Non tutti mi sono piaciuti, ma gli attori sono sempre grandiosi. Quando mi ha chiamato ho detto subito sì. Sul set ho capito che è un vero autore: segue un’esplosione con la stessa cura con cui segue un attore. Mi ricorda il grande direttore della fotografia Roger Deakins, con cui ho fatto Jarhead e Prisoners, usa la macchina da presa come un rabdomante, coglie il momento. In una scena in cui avrei dovuto essere io al centro, ha virato sul mio collega Yahya Abdul-Mateen II per assorbire la sua energia. Se fossi stato meno strutturato come attore, sarebbe stato devastante. È vero che urla sul set, perché ci mette tutta l’energia e ti fa tornare un bimbo che gioca a guardie e ladri con auto e elicotteri. C’è un pregiudizio nei suoi confronti, ma non sottovalutatelo».
Il suo personaggio è un narcisista. Come quelli che ha fatto in “Spider-man” e “Okja”.
«Sì, ma ogni progetto ha una spiegazione diversa e casuale. Ad esempio Okja : sono amico di Bong Joon-ho da una vita, un pomeriggio mi mostra il telefonino con le immagini di questa enorme creatura rosa e m’innamoro, lui dice “è il mio nuovo film”, io gli chiedo un ruolo. E poi, lo ammetto, mi piacciono i ruoli teatrali, i personaggi ingombranti».
“Ambulance” è stato girato durante la pandemia. Che impatto ha avuto il lockdown sulla sua vita?
«Quando mi fanno domande sulla mia vita io parlo sempre della carriera, il lavoro per me è tutto.
Ma questa pausa mi ha dato la possibilità di vedere il mondo cambiare drasticamente. La nebbia delle cose inutili è svanita, ho visto le persone che amo davvero e mi amano davvero. Erano lì e saranno lì quando succederà qualcosa, è un cerchio piccolissimo. Ho una devozione nuova per la mia famiglia e per i miei amici, mentre prima la priorità era la carriera; anche in una famiglia come la mia le cose sono intrecciate».
Questa storia mette al centro il rapporto tra fratelli. Lei è molto legato a sua sorella Maggie.
«È un rapporto fortissimo, e come tutti i fratelli è fatto di amore e bisticci. Tra le cose più belle e importanti di quest’anno c’è stato accompagnare Maggie alla Mostra di Venezia e vederla presentare The lost daughter. È un’attrice meravigliosa, ma l’ho scoperta in un modo nuovo. Per un anno e mezzo ha messo tutta se stessa – visione, cuore, mente – in questo progetto legato a Elena Ferrante. Nel mezzo della pandemia ha portato la sua famiglia in Grecia e Danimarca e provato a girare questo film. L’ho vista cambiare, evolversi come artista. Sostenerla come fratello è stata la cosa più importante che abbia potuto fare. Sono fiero della sua candidatura agli Oscar».
Com’è stato tornare alla Mostra di Venezia?
«Emozionante. Lì ho vissuto alcune delle esperienze più straordinarie della mia carriera. Con Brokeback Mountain inaugurammo la rassegna e fu l’inizio del viaggio incredibile di un film che mi è rimasto nel cuore per tanti motivi, tanti ricordi. Penso che il calore e la cura che gli italiani, in particolare a Venezia, portano al cinema non abbiano eguali. Mia sorella ha fatto un grande lavoro adattando il libro di Elena Ferrante, che considero un vostro tesoro nazionale».
Qualche tentazione da regista ce l’ha anche lei?
«Sono cresciuto guardando le cose da dietro la telecamera, da ragazzino sapevo che avrei fatto questo mestiere, ho sempre osservato gli altri girare. Ma non fa per me. Sul set di Brokeback Mountain, in Messico, il direttore della fotografia Rodrigo Prieto dovette recitare in una scena: non l’ho mai visto così a disagio. Ecco, con la macchina da presa in mano io sono proprio così».