la Repubblica, 22 marzo 2022
La biblioteca dello zar Vladimir
Per chi crede che nelle relazioni internazionali, oltre alla geopolitica, contino anche le tradizioni, e l’irrazionale che si portano appresso, è affascinante indagare sulle letture di quelli cui sono affidati i destini del mondo, dato che tutti, chi più e chi meno, sognano di realizzare conla politicaciò che hanno trovato scritto nei libri. Chi ha governato la Russia nei momenti cruciali non fa eccezione. Basti pensare a Caterina II che per il suo progetto di riforma dell’impero zarista copiò di sana pianta da Lo spirito delle leggi di Montesquieu. O a Lenin, che concepì la rivoluzione sui libri di Marxe Engels.OppureaGorbaciov, che leggeva Arthur Miller e riconosceva a certi scrittori un’autorità morale e intellettuale.
Anche documentarsi sui gusti letterari di Putin è interessante. Rifarsi ai classici russi come Guerra e pace di Tolstoj o Delitto e castigo di Dostoevskij non è certo il massimo dell’originalità, come pure citare dal Vangelo di Giovanni. Ma già le Memorie di un cacciatore di Turgenev ci dicono qualcosa di più sull’uomo. Un libro denso, che solo in apparenza parla di incontri e discussioni durante la caccia. Insomma una specie di antecedente siberiano delle Verdi colline d’Africa di Hemingway, che non a caso figura tra gli autori stranieri preferiti da Putin, con Per chi suona la campana e Il vecchio e il mare, insieme a Dumas con I tre moschettieri e Omar Khayyam con le sue Quartine.
Tutto questo porta a immaginare l’idea di letteratura che quest’uomo conserva dentro,ammesso che ne abbia una. E l’idea che con la letteratura egli vuole dare di sé. È istruttiva a questo proposito la lettura del suo articolo storico- letterario pubblicato nel luglio scorso, che con il senno di poi si può considerare un avvertimento sulle sue intenzioni riguardo l’Ucraina. Intitolato Sull’unità storica di russi ed ucraini, in esso Putin non solo ritorna alle origini nella Kiev di Vladimir il Santo, ma sostiene che autori russi come Gogol’ e ucraini come Taras Shevchenko, faccianoparte di una«comune eredità storica e culturale». A conferma che mitologia e letteratura giocano un ruolo non secondario anche nelle sue scelte politiche e di politica internazionale.
Non so se Putin abbia letto davvero gli autori e i libri citati sopra. E che insegnamenti ne abbia tratto. Certe cose le sa solo lui, non può saperle nessun altro. Ma sul fatto che abbia meditato a fondo sull’opera di Taras Shevchenko, il maggiore scrittore ucraino, è lecito avere qualche dubbio. Almeno a giudicare dall’andamento del conflitto in Ucraina.
Se lo avesse letto, e avesse ragionato sulla natura degli ucraini così come emerge dalla vita e dall’opera del loro poeta più rappresentativo, be’ avrebbe fatto probabilmente dei calcoli diversi. Nel senso che tanto per cominciare non si sarebbe fidato ciecamente dei suoi generali, secondo i quali i soldati russi sarebbero stati accolti come liberatori, e inoltre non avrebbe accarezzato l’idea che ai primi colpi di artiglieria l’esercito ucraino si sarebbe liquefatto come quello afgano.
Di Taras Shevchenko si legge poco durante queste settimane. Si legge più di autori russi nati in Ucraina, come Gogol’ e Bulgakov, che del padre della letteratura di quel Paese, e dell’inventore della sua lingua. Un volto da cosacco, con baffoni e colbacco, che nei giorni di Maidan sventolava sulle bandiere, eche in versione più giovanile è stampigliato sulle banconote da 100 grivnia. A lui sono dedicate statue in ogni angolo del Paese, oltre all’università di Kiev e a una delle stazioni della metrocittadina. E quel che più conta, ogni volta che incombe una minaccia, tutti fanno quadrato attorno ai suoi versi: che sono un inno all’ostinazione, al coraggio e all’orgoglio di essere ucraini.
Già il fatto che fosse nato da una famiglia di servi della gleba, nella steppa tra Kiev e Odessa, e che ciononostante fosse riuscito a imporsi come pittore e poeta negli ambienti di San Pietroburgo, la dice lunga sulla sua tempra.
Ma a farne l’icona del popolo ucraino è la sua scelta sovversiva, che gli valse anni di prigionia e di confino in Kazakistan, e ancor più la sua poesia carica di pathos e carisma, con cui fino alla fine profetizzò la libertà del suo paese. L’Ucraina gli deve una memoria storica e una coscienza nazionale, oltre che una lingua letteraria. Soprattutto gli deve l’esempio di un’esistenza pura, senza compromessi, sempre dalla parte degli oppressi e contro aggressori e invasori d’ogni specie.
Kobzar (Bardo), lasua prima raccolta in versi del 1840, provocò un terremoto quando apparve in Ucraina. Perché prima di allora nessuno aveva parlato di libertà, di rivolta, di un Dnepr rosso sangue e di far resuscitare dalla storia la gloriosa nazione cosacca di Ivan Pidkova.
Per di più in un’epoca in cui il demone nazionale stava già rovinando il sonno alle corti europee, alla vigilia del 1848, e il peso della dominazione zarista in Ucraina si andavafacendo semprepiù insopportabile. La sua poesia recupera una lingua, una tradizione, una musica e un paesaggio. E con essi costruisce le fondamenta di una nuova nazione. «Nel profondo di ogni ucraino pulsa un’anima cosacca» si sente ripetere in questi giorni di sacrificio e combattimenti: ebbene è proprio di queste anime folli, disperate e senza paura di morire per la propria terra che scrive Taras Shevchenko, che era una di loro e che per questo continua a suscitare sentimenti fortissimi.
Ecco perché Putin avrebbe potuto meditare su certi suoi versi ipnotici. Tipo quello Lottate e vincerete.
Invece di ignorare i poeti morti che è sempre pericoloso. In un certo senso un leader politico, come uno scrittore, non può limitarsi alla contemplazione della realtà, ma deve interrogarsi su tutta la gamma delle possibilità dell’esistenza.
Che vuol dire non accontentarsi di osservare quel che gli uomini fanno, ma porsi continuamente il problema di quel che sono capaci di fare. Se Putin avesse letto Taras Shevchenko, forse avrebbe capito di cosa sono capaci gli ucraini, e forse ciavrebbe pensato due volte prima di lanciarsi in questa avventura. O perlomeno lo avrebbe fatto senza coltivare l’illusione di una guerra vinta in partenza. Insomma, ma ovviamenteè tuttoda dimostrare, forse un libro avrebbe potuto salvarlo.