la Repubblica, 22 marzo 2022
I Ceceni, la Brigata Azov e la guerriglia urbana
Prima regola: mai entrare dalla porta. Solo dal terzo piano in su si può sperare di non finire in un agguato. I ceceni lo sanno bene: a Grozny vent’anni fa i loro padri hanno fatto strage dei russi che osavano avventurarsi nei palazzi.
Adesso mettono quell’esperienza al servizio dei vecchi nemici: li si vede salire su scale di legno, arrampicarsi nei balconi e poi irrompere dalle finestre. Quindi procedono metodicamente, un pianerottolo dopo l’altro: sfondano le porte, gettano dentro le granate e completano la “pulizia” con le raffiche di kalashnikov. Si muovono con passi accorti, nel timore che ci siano trappole esplosive piazzate tra gli stipiti.
Quelle scale di legno rendono la battaglia di Mariupol simile a un assedio medievale. Per vincere bisogna conquistare le torri, gli edifici più alti dove si dirige il tiro dell’artiglieria. La resistenza è in mano alla Brigata Azov: la legione nera di estremisti si ispira alle Waffen SS che difesero Berlino.
Sono veterani che hanno lottato casa per casa nel Donbass dal 2014 in poi e, anche se sono stati integrati nell’esercito ucraino, seguono solo le loro logiche marziali: brutalità contro brutalità.
Contano sul vantaggio che le statistiche concendono agli assediati: ci vogliono cinque soldati per battere ogni uomo trincerato.
I generali di Mosca all’inizio hanno mandato avanti i loro marines. Ma appena si sono inoltrati nelle strade, cercando di aggirare le barricate, sono caduti nelle imboscate. Allora sono tornati ai metodi sovietici: gli aerei radono al suolo gli edifici dove ritengono ci siano comandi o depositi; l’artiglieria bersaglia le finestre sospettate di nascondere vedette.
Se non basta, usano ordigni incendiari, come i semoventi Buratino che avvolgono i condomini in nuvole di fuoco.
Poi di notte gli Spetsnaz entrano negli scheletri dei palazzi. Dal Caucaso è arrivato il “Battaglione Mercurio”: prende il nome dal santo guerriero che si infilò nell’accampamento dei tartari, massacrandoli nell’oscurità, e agisce alla stessa maniera. Plotoni di cinque commandos accompagnano squadre di cecchini che si sistemano in attesa di obiettivi. Gli sniper russi agiscono in coppia ma restano separati: stanno a trecento metri, in modo da coprirsi a vicenda. Quelli ucraini invece sono addestrati nello stile occidentale: tiratore e osservatore stanno fianco a fianco. Come a Beirut e a Sarajevo, sono loro i padroni della città. «Le guerre vengono decise dalla stessa istanza che le comincia: la politica – ha spiegato lo storico britannico Martin Pegler -. Ai fini della vittoria, i cecchini sono del tutto irrilevanti.
Nello scontro diretto, invece, sono decisivi. Hanno un potere psicologico che amplifica, e di molto, i loro risultati». Non si vedono, ma condizionano ogni iniziativa: le statistiche sostengono che in Vietnam uccidevano due nemici ogni tre proiettili, con una letalità 35 mila volte superiore alla media dei soldati. Rimangono immobili per ore e sanno che a Mariupol non si prendono prigionieri: se vengono circondati, chiedono ai cannoni di sparare sulla loro posizione. L’ultima istanza è una granata, per farsi saltare in aria assieme ai nemici: un daghestano lo ha già fatto.
In questo conflitto che ha sempre più le dinamiche fratricide delle guerre civili, pure i civili sono un bersaglio: il terrore serve al Cremlino per spingere l’Ucraina a capitolare; cecchini e missili ipersonici hanno la stessa missione. Ma qui i combattimenti urbani non hanno nulla di tecnologico: persino i droni sono una presenza sempre più rara su Mariupol, si è tornati a un passato di lotta tra umani. Putin si è affidato alle torme di ceceni, miliziani tribali che ballano nelle pause degli scontri: non hanno pietà e garantiscono che dietro la prima linea non restino insidie.
Hanno espugnato le rovine della fabbrica Azovstal e ora cercando di tagliare in due i quartieri in mano agli ucraini. Con calma letale, come un serpente che soffoca la preda. E senza curarsi dei civili rimasti senza possibilità di fuga.