Corriere della Sera, 22 marzo 2022
Intervista a Niccolà Branca, Mr. Fernet
«Signor conte, bisogna uscire, in fretta». Mancano pochi minuti alle 22, nello stabilimento dove è custodita la ricetta segreta di uno dei liquori più famosi del mondo. Il conte Niccolò Branca corre verso il grande mondo che decolla con un’aquila e una bottiglia, il logo che sovrasta il palazzo e compare in milioni di etichette. Né il ruolo, né il titolo nobiliare gli permettono una deroga alla regola che impone a tutti di filare via prima che scattino coprifuoco e sistema d’allarme. Blazer blu e braccialetti etnici ai polsi, Niccolò Branca non perde la calma. Porta occhiali con la montatura di tartaruga, ha una curatissima barba grigia, ha 65 anni e sembra appena uscito da una serata trascorsa a meditare. «Pratico la meditazione da quasi trent’anni – racconta – e la uso per guidare l’azienda». Presidente e amministratore delegato di Branca International, il conte è al timone di un gruppo da 300 milioni di ricavi, con 330 dipendenti (nessuno con contratto a tempo limitato). Tra i 12 marchi di liquori con 60 milioni di bottiglie l’anno, il faro è il Fernet Branca che si produce nella casa-fabbrica in centro a Milano e in Argentina.
Parliamo un po’ di lei?
«Sarà noioso».
Come riesce a mantenere segreta la ricetta del Fernet dopo quasi due secoli?
«Qualche anno fa risposi al New York Times che pur di non rivelarla andavo in Argentina nel momento della produzione».
E adesso?
«La tecnologia ci aiuta, la mia presenza non è più necessaria. Siamo organizzati a compartimenti stagni: nessuno conosce la fase completa di lavorazione. Chi si occupa di erbe e radici, selezionate con codici segreti dal computer, non partecipa alle infusioni, alle estrazioni e ai decotti, mentre un altro team in modo altrettanto segreto unisce i mix. Solo io conosco i codici».
Quante sono le erbe e le radici usate per il Fernet?
«Sono 27. Nove di queste vengono aggiunte con un ulteriore blend. Una ciliegina. Come un dosaggio negli champagne».
La segretezza è la chiave del successo del vostro liquore?
«La ricetta viene trasmessa di generazione in generazione (siamo alla quinta) a chi ha la responsabilità dell’azienda. È un processo produttivo difficile, lungo e costoso. Nel nostro museo c’è un intero armadio con 200 imitazioni finite male».
La ricetta le è stata affidata da suo padre?
«Soprattutto da mio zio».
Quando è entrato in azienda?
«Ero già maturo, nel 1999. Sono stato prima presidente della banca Ifigest. Poi ho diretto una collana di libri, “Saggezza, scienza e tecnica” per la Nardini di Firenze, una visione olistica del sapere. E altro ancora».
Cercava un percorso autonomo dalla famiglia?
«Un percorso di autoconoscenza personale. Ho studiato psicologia e seguito maestri della meditazione».
Le è servito in azienda?
«Molto. La prima cosa che ho fatto alla Branca è stata introdurre un codice etico. L’idea è che le persone all’interno della società sono considerate non come mezzi ma come fini. Poi abbiamo stabilito regole di rispetto ambientale con i fornitori delle erbe da tutto il mondo. Abbiamo varato carte sulla sicurezza del lavoro e molto altro, fino al bilancio di sostenibilità».
E avete dato lo yoga come benefit per i dipendenti durante lo smart working.
«Anche prima, grazie ad una insegnante che aiuta ad affrontare lo stress del lavoro. Durante la pandemia abbiamo continuato con i corsi online. Di yoga ma anche di cucina, abbiamo un ricco welfare aziendale».
Cos’è la meditazione?
«Presenza. Che porta alla tranquillità della mente. In modo da osservare quello che avviene dentro se stessi, e avere visione profonda e chiarezza. Da questo arrivano saggezza e consapevolezza».
Meditando le sono venute idee per il lavoro?
«Tante idee, Einstein diceva che se vuoi risolvere un problema devi fare altro. A volte basta una passeggiata, evitando di stare concentrati. Si deve liberare la mente per avere il guizzo».
Il suo guizzo nato durante la meditazione?
«Ho convertito in dollari i capitali argentini poco prima del default del Paese. Non solo ho salvato il patrimonio ma tutto l’organismo vivente aziendale, come lo chiamo io».
Con che idea avete affrontato quella crisi?
«Ci siamo inventati un amaro di pronta beva, meno costoso del Fernet. Avremmo potuto chiudere, ma abbiamo scelto un approccio creativo e siamo riusciti a traghettare l’azienda fuori dal periodo buio».
Altri guizzi con la meditazione?
«Durante la pandemia ho pensato: anche con i bar chiusi la gente vuole bere bene. Così abbiamo lanciato i cocktail monodose, Negroni e Mito. Quelle bottigliette sono state un successo».
Come convive con il suo titolo nobiliare?
«L’ho ereditato. È stato conferito per meriti sociali. Per il nostro impegno a fare affari in modo etico. Ho poi avuto la gioia di essere insignito Cavaliere del Lavoro dal presidente Napolitano. Sono anche Cavaliere di San Marino».
Come ha cambiato l’azienda?
«C’era bisogno di mettere ordine. Ho creato subito una holding international, poi il ramo finanza e quello immobiliare. Con manager che hanno compiti precisi per sviluppare i vari settori».
Suo zio cosa le disse consegnandole le chiavi del portone dello stabilimento?
«Mio zio Giuseppe mi è sempre stato vicino. Come mio padre, Pierluigi».
E cosa ha pensato entrando da capo in azienda?
«Un senso di gratitudine per chi ha lavorato qui in 177 anni, si respirano amore e passione. Ho sentito l’obbligo di continuare l’artigianalità. Vendiamo in 160 Paesi».
Lei gira il mondo?
«Ho appena ricominciato dopo la pandemia, dall’Argentina».
Mogli e figli lavorano con lei?
«Mia moglie si occupa di tutt’altro, è importante che sia così. Un figlio è vice presidente della consociata America ma non è dipendente. La filosofia è di non avere dipendenti della famiglia. Ognuno deve fare la propria strada».
Come ha fatto lei.
«Esatto».
Il rapporto Branca-Milano?
«Siamo sempre stati in città. Il primo stabilimento alle Varesine, poi l’abbiamo venduto al padre di Manfredi Catella. Siamo in via Resegone dal 1907. Abbiamo restaurato la Torre Branca, facciamo molti eventi. Abbiamo usato la ciminiera per la Land art».
È vero che in Argentina il Fernet si beve soprattutto con la Coca Cola?
«È la bevanda nazionale, una parte di Fernet e tre di Cola, ma ognuno fa come vuole. Il Fernet ha un carattere forte, una personalità che permette ai mixologist di usarlo, ad esempio, con la birra o con il chinotto».
Qual è l’erba o la radice che non toglierebbe mai dal Fernet?
«Zafferano, mirra, genziana, zedoaria, galanga... Ma è l’insieme delle parti che diventa più della somma. Lo sapeva bene mio nonno, che era un alchemico».
La ricetta è mai cambiata?
«No, ma altri fattori, come il clima, influenzano le caratteristiche delle erbe. Come accade con l’uva per il vino».
Davvero riesce a distinguere un Fernet da annata a annata?
«Si capisce di quale epoca sia, anche perché negli anni è cambiato il grado alcolico».
Qual è stato il record?
«48 gradi, adesso siamo a 39. Un tempo, quando non c’era la tecnologia di oggi, l’alta gradazione serviva ad amalgamare erbe e radici».
Qual è stato l’uso più strano del Fernet?
«L’ho trovato in un consorzio agrario, lo vendevano per il pastone dato a cavalli e mucche per pulire lo stomaco».
Il Fernet era un medicinale?
«Fino al 1950, proprio per i disturbi di stomaco. È stato il nonno, con una idea geniale, a farlo uscire da questa categoria. Che ci ha comunque permesso di vendere negli Stati Uniti anche durante il Proibizionismo».