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 2022  marzo 22 Martedì calendario

Lo Scheherazade, il panfilo da 700 milioni riconducibile a Putin

«Cari italiani, adesso sapete tutto». Questa mattina in un’aula del tribunale di Mosca verrà emessa la sentenza contro Aleksej Navalny. L’accusa è di frode e oltraggio alla corte. In caso di condanna, dovrà scontare tredici anni di reclusione, che si sommano ai due che gli sono stati comminati da una precedente sentenza.
Quel che ha sempre reso inviso al Cremlino l’attivista e dissidente più famoso di Russia è stato il suo metodo, che alla comunicazione abbinava inchieste giornalistiche molto scomode. La più famosa è forse quella sul suo avvelenamento avvenuto in Siberia nel 2020, dove lui era al tempo stesso protagonista e vittima, che rivelò come fosse stato pedinato da una squadra di agenti segreti fin dal giorno della sua candidatura alle elezioni. Ma a dare fastidio furono molti servizi giornalistici che documentavano la presunta corruzione di alcuni collaboratori di Vladimir Putin. Nel giorno del giudizio, arriva una nuova inchiesta fatta dai suoi collaboratori, che chiama in causa il nostro Paese.
Il panfilo da 700 milioni
Lo Scheherazade, uno degli yacht più grandi del mondo, ormeggiato nelle ultime settimane a Marina di Carrara, sarebbe di proprietà del presidente russo. Il panfilo, 140 metri di lunghezza, due piattaforme di atterraggio per elicotteri e un valore stimato di 700 milioni di dollari, risulta intestato a una anonima compagnia delle Isole Marshall. Nessuno si è mai fatto avanti per rivendicarne il possesso. Era questa incertezza a impedire qualunque iniziativa in osservanza delle sanzioni che prevedono l’esproprio dei beni esteri di una lunga lista di nomi. In cima alla quale c’è il presidente russo. Certo, correvano voci. La Finanza e l’Interpol stanno indagando. Ma non c’è alcuna conferma.
Gli indizi del «Team»
L’ufficialità non c’è neppure adesso. Ma se tre indizi fanno una prova, l’inchiesta del cosiddetto Team Navalny ne fornisce alcuni. A metterli in fila c’è un video, prodotto e curato da Maria Pevchikh e Georgi Alburov, due dei più stretti collaboratori del dissidente, da tempo rifugiati in Lituania. Come sono giunti a questa conclusione? Lo spiegano loro stessi. Hanno tralasciato le ricerche sulla proprietà dello yacht e si sono concentrati sull’identità delle persone che ci lavorano a bordo. Sono tutti russi. Almeno dodici sarebbero dipendenti dell’Fso, il Servizio di protezione federale, una agenzia di Stato che ha tra i suoi compiti quello di occuparsi del presidente. Dalle guardie del corpo alla sicurezza tecnologica intorno alla sua persona, ma anche la costruzione e la supervisione delle sue proprietà. I suoi agenti sono gli angeli custodi di Putin, così sostiene l’inchiesta. Nella lista dell’equipaggio sono stati identificati dirigenti Fso di alto rango, come l’ufficiale capo Serghey Grishin, e l’addetto alla sicurezza a bordo Vitaly Belenko. Tra i membri del personale che lavora sullo Scheherazade ci sarebbero almeno altri dieci membri della stessa agenzia. Infine, viene riportata la testimonianza anonima di un marinaio dello yacht, il quale ha confermato che il proprietario sarebbe il leader russo.
«Prove sufficienti»
La conclusione alla quale arrivano i due autori è che una dozzina di persone legate al presidente si occupa della manutenzione e della gestione dell’imbarcazione ormeggiata in un porto italiano. «Crediamo che ci siano prove sufficienti per stabilire che appartenga a Putin e che quindi vada immediatamente sequestrato». La pistola fumante ancora non c’è, manca qualunque atto di proprietà dello yacht, e l’inchiesta deve essere valutata con cura. Ma il messaggio appare chiaro, ed è rivolto a noi. Forse è l’ultima sfida di Navalny, lanciata prima di scomparire per molto tempo dalla vita pubblica. Ora il governo italiano deve decidere se raccoglierla. E non si tratta certo di una decisione facile.