il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2022
Parla la vedova di Antonio Tabucchi
Maria José de Lancastre, per gli amici Zé, è stata la compagna di vita di Antonio Tabucchi. In questo piccolo “dialogo nel dialogo” torna a mostrarci l’immagine dello scrittore nella sua dimensione più privata.
Antonio Tabucchi era un vero e proprio rabdomante. Gli incontri con lui erano spesso una sorta di cerimoniale durante il quale lo si stava ad ascoltare come al cospetto di un incantatore. Quanto entrava nella vostra vita quotidiana, Zé, questo mondo di idee, di racconti, di visioni, di letteratura, di cui conosciamo come lettori la magia attraverso le sue pagine? Hai in particolare qualche ricordo di questa sua arte affabulatoria?
La vera e importante arte affabulatoria di Antonio la si è sempre scoperta con meraviglia e incanto sulla pagina, ma la si “toccava con mano” nella conversazione con lui, in un’intervista, era una fucina di idee, di citazioni di autori che amava, di paradossi. Nella vita quotidiana la sua arte affabulatoria sceglieva una dimensione più familiare, ludica e, curiosamente, vicina all’arte scenica: gli piaceva sorprenderci sia a livello del linguaggio (i giochi di parole) sia a quello del ragionamento paradossale (la soluzione imprevedibile) sia a livello di vera e propria rappresentazione teatrale, con il travestimento, il camuffarsi, l’invenzione di trame e giochi.
In effetti nel ricordo di chi lo ha conosciuto Antonio riusciva sempre a sorprendere, a cogliere aspetti della realtà del tutto imprevedibili. In un certo senso tutta la sua vita è stata improntata al “gioco del rovescio”.
Sì, i bambini adoravano i suoi “numeri” preferiti: la sigaretta che “penetrava” in un orecchio e che sbucava dall’altro, dopo una passeggiata dentro la testa; o il fantasma, la sera, con dei denti enormi, tagliati in una patata, e illuminati dalla torcia, provocando gioiose grida di terrore. Questo aspetto della sua personalità lo si trova in una serie di fotografie che ho riunito, nell’archivio fotografico, in una cartella intitolata “Tabucchi stravagante”, dove lo vediamo, per esempio, “leggere” attentamente un giornale singalese o sul divano con un libro in una mano, una scarpa nell’altra e una borsa dell’acqua calda sulla testa: ci vuole stupire, svegliare alla finzione, ci racconta una storia.
Oggi, a distanza di anni, il lettore delle opere di Antonio sente la sua presenza ancora viva, ancora vicina, quasi con la vicinanza dei classici che con il passare del tempo ci appaiono sempre più prossimi. Come vivi tu, personalmente, la sua memoria? Possiamo credere che qualcosa di immutabile sia rimasto nel tuo rapporto con lui come è rimasto nel nostro rapporto di lettori con la sua opera?
Ho cercato di conservare una sintonia con il suo sguardo sul mondo: sempre curioso e aperto. Era uno dei tratti della sua personalità che più ammiravo: l’apertura agli altri, agli esseri umani, non tenendo evidentemente conto di nazionalità, religioni, colore della pelle, sesso o età; anzi, volendo capire l’altro nelle sue differenze. Ne ero testimone quando era all’estero. E se, evidentemente, negli incontri brevi si trattava per la maggior parte di simpatia umana che riscaldava un incontro rapido, tutto era più profondo nei rapporti duraturi, si creavano lacci forti derivati dal suo interesse vero per le storie di ognuno, del suo Paese, della sua lingua, e l’altro forzosamente si apriva e diventava fratello, o sorella. E questo si specchia nei suoi libri.
Un elemento della vita creativa di Antonio emerge con particolare chiarezza: quello di aver sempre chiesto consiglio a te prima di pubblicare un suo testo, fosse questo un romanzo, un racconto o persino un articolo. Cosa ricordi in particolare di tale vostro rapporto di complicità? E quando formulavi qualche critica ad Antonio, con quale spirito affrontava i tuoi suggerimenti?
Ho avuto il privilegio di ascoltare spesso in primis quello che creava e sono fiera e grata che abbia condiviso con me tante meraviglie. Quando a volte raggiungeva l’apice della bellezza mi si rizzavano i peli delle braccia e glielo facevo vedere ridendo: era il termometro. Il ridere insieme, fuggendo dalla solennità, nonostante avessimo la consapevolezza della magia che aveva creato, era un elemento di grande complicità.
Gli sei stata d’altronde complice anche nei momenti più difficili, quando la battaglia non era solo letteraria ma anche morale e civile.
Sì, mi leggeva anche i testi di battaglie e polemiche feroci, che sapevo che gli avrebbero portato guai, che non erano esercizi di stile ma la dura espressione delle sue convinzioni. Lui sapeva che le mie critiche erano dettate da una ricerca di imparzialità, di giustizia e di altrettanta indignazione, con, a volte, un più banale buon senso. Molte volte le accettava, qualche volta faceva di testa sua, prendendo tutti i rischi, ma la complicità non veniva meno.