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 2022  marzo 22 Martedì calendario

Come aprire una libreria per ragazzi

Grazia Gotti, bolognese, nei suoi settant’anni è/è stata: maestra elementare (per dieci anni); cofondatrice della libreria per ragazzi Giannino Stoppani di Bologna, uno dei punti di riferimento in Italia; fondatrice della Accademia Drosselmeier (nata a Bologna nel 2003), una scuola per diventare librai per ragazzi; editrice (con la sua Tusitala, poi scomparsa); curatrice di collane editoriali e di mostre; scrittrice, come in Alla lettera, un memoriale delizioso di «libri&librerie», in forma di alfabeto (Bompiani, pagg. 286, euro 17). E, infine, giurata in numerosi premi internazionali, come il Bologna Ragazzi Award della Bologna Children’s Bookfair, la cui 59esima edizione si tiene nella sua città fino a giovedì 24 marzo.
Come è diventata giurata al Bologna Ragazzi Award?
«Devo fare un passo indietro. Nell’83, con delle amiche, fondammo la libreria Stoppani e, qualche anno dopo, una piccola casa editrice, che non c’è più, con la quale entrai in Fiera nell’87. Avevamo uno stand, pagato coi nostri soldini».
E poi?
«Ho fatto anche la maestra elementare, ho avuto un figlio a 42 anni. La mia fortuna, comunque, è stata quella che a Bologna ci fosse la prima cattedra di Letteratura per l’infanzia: le mie amiche e io abbiamo tutte studiato con Antonio Faeti, seguendo un percorso di studi specifico. Consideri che a trent’anni, quando abbiamo fondato la libreria, ero la più vecchia. Ci chiamavano le Giannine, che se ci penso oggi, a settant’anni, mi viene da ridere...»
Che cosa caratterizzava le Giannine?
«C’erano una grande operosità ma, anche, molto studio e conoscenza, pur se fuori dall’università. Poi Faeti è stato chiamato a presiedere il Premio e ha chiesto alla Fiera che facessi l’assistente. E così, con lui, ho imparato cose che non avrei mai potuto imparare, incontrato nomi enormi».
Per esempio?
«Consideri che il mio battesimo da giurata è avvenuto accanto al sommo Heinz Edelmann, quello di Yellow Submarine. Mi portai tutti i suoi libri dietro, per farmeli autografare. Poi, con l’Accademia Drosselmeier abbiamo avviato una collaborazione proficua con la Fiera».
Per che cosa?
«Ogni anno accogliamo i libri che gli editori inviano per partecipare al Bologna Ragazzi Award, e questo significa che, da dicembre a fine gennaio, vediamo la produzione degli ultimi due anni relativa a tutte le categorie del premio. E tutti questi libri e albi li studio, li leggo, li sfoglio».
Fa invidia.
«Eh, lo immagino. E, da questo lavoro tecnico, nascono anche delle mostre, selezioniamo libri che mandiamo a Shanghai, a Sharjah, a Mosca, e poi individuiamo temi, fenomeni...»
Un fenomeno che avete notato?
«Quello su cui abbiamo organizzato la mostra quest’anno in Fiera, Fluobooks: una componente nuova delle edizioni illustrate è infatti l’uso dei colori fluo in modo narrativo o grafico. I titoli esposti sono 130, ma abbiamo già progettato anche una rassegna, che girerà il mondo, per mostrare la natura dei colori fluo, unendo scienza e arte. E, poi, stiamo pensando a un nuovo corso in Accademia, sulle tecniche delle illustrazioni».
Che cosa distingue il libraio che vuole formare?
«La conoscenza, la passione per lo studio e la ricerca. L’abilità di gestire un’impresa commerciale con la cultura. Il libraio non deve star lì ad aspettare il bestseller, bensì inventarsi una sua strategia di comunicazione, di legame col territorio, di rapporti con le scuole e le maestre, per aiutare i ragazzi a leggere».
Nel libro scrive di essere stata «una gran venditrice». Come?
«Mettendo a frutto l’arte della conversazione, che è principe. Se a una persona presento un libro, e le dico che è buono, e poi un altro, e un altro, alla fine li compra tutti. La gente usciva con bracciate di libri, a volte ero perfino in imbarazzo. E allora perché tanto successo? Forse perché trovavano quello che si aspettavano?»
Passione?
«Direi quello che un ragazzino riesce a intendere subito: se una persona è autentica. Io sono lì per vendere un libro, non per fregarti; e lo vendo alla mia maniera. Come quando ci chiedevano, sbalorditi: ma li avete letti tutti?».
Risposta?
«Se un libraio è onesto dice: un libro lo puoi anche lasciare a pagina 35... Oppure: io non l’ho letto, ma lo ha fatto la mia collega, e dice che è bellissimo. E allora il cliente lo compra lo stesso. Niente bugie, niente moda».
La differenza fra libreria e libreria per ragazzi?
«Quella per ragazzi è un lavoro più circoscritto: puoi cucirti un vestito in cui ti trovi bene, a partire dai libri che metti sugli scaffali, senza essere costretto a dei titoli. La specializzazione è legata all’indipendenza, e la libreria sopravvive per questo. Penso che il Ministero debba riconoscere il ruolo così importante di queste librerie e destinare a esse dei fondi per gli affitti, come fa per il teatro lirico o il cinema».
Come vede il mercato dell’editoria per ragazzi in Italia?
«Quasi stordente. Una quantità di titoli... Li guardo tutti e mi chiedo: ma perché? Nel 2001 Faeti diceva: mi pare di ravvisare una frenetica produzione che Tempi moderni di Chaplin o Il mondo nuovo di Huxley avevano già mostrato. E poi: mi sembra che non ci siano idee».
Non ci sono?
«Tutti, o quasi, fanno le stesse cose».
Il Paese ospite a Bologna quest’anno è Sharjah.
«C’è qui la figlia dello sceicco, Bodour Al Qasimi. Ha fondato una casa editrice per bambini, Kalima, di cui alcuni libri, come Avicenna e Averroè, sono pubblicati da noi da Gallucci, ed è presidente dell’International Publishers Association. È bravissima, ed è una attivista, in un certo senso».
Ha visitato librerie per ragazzi in tutto il mondo. Quale ha nel cuore?
«La Ih-Oh, dal nome del ciuchino di Winnie Pooh, che vidi quando a andai a New York la prima volta, e che purtroppo non esiste più. E ho amato la Children in Paradise, a Chicago».
Perché?
«Aveva una insegna in legno, di fine ’700, quando furono inventati i libri per bambini, con un logo inciso: un lavoro artigiano, che l’editoria dovrebbe conservare... Non era nostalgico: era anticipatorio. Dentro, poi, una capacità sorprendente di esporre e creare un percorso intelligibile, con una forte personalità; ci sono dei canoni nell’esposizione, e quello era tutto tranne che scontato. Calasso lo spiegava per le collane editoriali, ma anche fare una libreria è un genere letterario, tutto dipende da che impronta le dai: è come un racconto».
Come sarebbe il suo oggi?
«Farei una cosa radicale. Prima si chiamavano tutte Librerie dei ragazzi, poi hanno iniziato a diffondersi i nomi letterari; oggi farei una BCB – Best Children’s Book, con le B intrecciate, come Gucci. Un grafico di Gallimard mi ha già disegnato il logo».
Dentro?
«Solo il meglio dei libri francesi, spagnoli, russi... Ma una cosa che vorrei fare prima di morire è un nuovo format per adolescenti, fra 13 e 19 anni: la chiamerei TT, TeenTruck, un nome copiato da una collana che vidi su una bancarella a Londra, negli anni ’60. Anche questo logo è già pronto e aiuterei volentieri qualche giovane libraio a farne una in ogni città d’Italia, magari coi soldi del Recovery».