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 2022  marzo 21 Lunedì calendario

Roberto D’Agostino e il calcio

Dagospia: basta la parola. Sintesi perfetta di D’Agostino Roberto, classe 1948, romano e spia, ovvero chi osserva i movimenti e i comportamenti di altri, per curiosità o interesse. Chi viene pizzicato e non gradisce, liquida Dagospia come sito di gossip. Roberto lo definisce «bollettino di informazione, punto e basta». La descrizione di casa è «risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena». Piace a molti, tanti lo temono, tantissimi lo cliccano: è uno dei 50 siti più consultati d’Italia e nel suo genere, linguaggio e titoli spettacolari strepitoso Scene da un patrimonio a proposito delle nozze finte di Berlusconi -, un unicum. Il calcio, con il cucuzzaro di cronaca, fidanzate, mogli, amanti, tradimenti, separazioni e riconciliazioni, occupa un ruolo centrale. La Dagovita di Roberto: ragioniere, impiegato di banca, musicista, disc jockey, giornalista e ingresso trionfale nelle case degli italiani nel 1985 grazie a Quelli della notte, ruolo lookologo, esperto di edonismo reaganiano. Oggi è un acuto e spiazzante osservatore di politica e società.
Che c’azzecca il calcio con la sua biografia?
«C’entra la Roma, di cui sono tifoso da sempre. Per me la Roma è una fede: esiste e basta. La Roma può giocare male e negli ultimi tempi capita spesso, ma chissenefrega. La Roma è un fatto religioso. Il praticante non ha la prova dell’esistenza di Dio, crede e basta».
Esperienze calcistiche?
«Ai tempi dell’oratorio. Non ero veloce e per questo mi piazzavano in difesa. Il calcio è lo sport più popolare perché contiene in profondità il senso del gioco, comune in tutte le civiltà. Dalla Grecia in poi funziona così».
Lo stadio?
«È un formidabile luogo di aggregazione. Ci sentiamo compagni di avventura, componenti di una comunità più ampia. Allo stadio diamo il meglio e il peggio di noi stessi».
Il calcio preferito?
«Il tiki-taka mi annoiava, due palle. Mi distraevo, cominciavo a smanettare sul telefonino. Mi piace la Premier, la velocità, l’attacco, la corsa fino all’ultimo secondo. Anche Guardiola in Inghilterra si è evoluto. In Italia siamo messi male, a parte l’Atalanta, unica squadra di respiro internazionale. Da noi c’è il calcio del passaggio all’indietro: io lo punirei come fallo di gioco».
Dove nasce la differenza tra Inghilterra e Italia?
«L’Inghilterra è nazione di rugby: nasce tutto dallo spirito di questo sport. Il modello italiano, palla indietro e difesa, poteva essere giustificato settant’anni fa, quando i nostri erano abatini. Oggi sono atleti e non possono giocare il calcio degli impiegati».
In Champions rimediamo legnate memorabili, ma la Juve continua a invocare la Super Lega.
«Li capisco, poveracci. La Juve costa molto e non vince mai. La Super Lega è il tentativo di garantirsi un ricavo sicuro, ma io sono contrario perché cancella la meritocrazia. Mi piacciono le storie, i Sassuolo e i Leicester».
La narrazione giornalistica del calcio?
«Detestavo Caressa e il suo circolo. Bene Di Canio: laziale, fascista, coatto, ma con un suo stile. Capello è bravissimo: analisi sempre chiare. L’ambiente è ingessato perché tutti conoscono tutti. Adoro i duetti Bobo Vieri-Cassano. In generale chi parla di calcio deve essere anche un po’ teppista. Bisognerebbe liberare il linguaggio: non si può trattare una partita come se fosse il bilancio dello stato».
Ricordi personali?
«Avevo una rubrica nelle pagine dell’Espresso, anni Novanta. Un giorno arrivò una telefonata da Auckland, Nuova Zelanda, dove Luna Rossa era impegnata negli allenamenti in vista dell’America’s Cup. Mi passarono Patrizio Bertelli. Era furibondo. Mi disse che dopo aver ricevuto la visita di Gianni Agnelli, c’era stata una sfilza di guai. Io scrissi un pezzo in cui trattavo Agnelli come portasfiga. Successe un casino. Agnelli la prese malissimo. Mi tolsero la rubrica».
I presidenti?
«Cercano consensi e popolarità. Usano il calcio per altri scopi. Sono industriali che hanno sprecato montagne di denaro nel calcio, facendo dimenticare i problemi nelle loro aziende e chiedendo allo Stato di mettere una pezza sui loro errori».
Quelli di oggi?
«Lotito mi fa ridere. Ho un debole per lui. Non si capisce un cazzo quando parla. Poi il Viperetta, ma che fine ha fatto? Sono maschere della commedia. Meglio loro che andare al cinema. Inventano frasi senza senso, sono grandiosi. Non mi spiego il fenomeno De Laurentiis. Ha riportato la squadra in alto, ma a Napoli lo odiano. C’è poi il mistero dei Friedkin. Muti».
La Roma è stata anche Dino Viola e Franco Sensi.
«Il primo ci ha dato la Roma più bella di sempre. Passammo dalla Rometta alla Roma. Franco Sensi lottava contro il potere e poi c’era la moglie, la Sora Maria».
Mourinho?
«A qualcuno piace il gioco, a Mourinho piace il conflitto, che di tutte le cose è il re, come diceva Carmelo Bene citando Eraclito. Aggiungeva: il calcio è uno sport eroico e barbarico. E chiudeva: l’ultimo stadio del tifoso è il delinquente. Frullate tutto questo e avrete lo spirito di Mourinho».
Il podio dei calciatori della Roma?
«Falcao, Batistuta, Totti».
Dagospia è stato il primo media a svelare i problemi di casa Totti.
«Lo sapevano tutti, ma nel giornalismo vige spesso la legge dell’omertà. Totti è stato l’ottavo re di Roma. Ai re si perdona tutto e si nascondono le magagne».
Mogli, fidanzate e amanti sono straripanti. Vediamo coppie molto cafonal.
«Il livello culturale del calciatore non è mai stato elevato. I giocatori passano spesso dai giornaletti pornografici alle donne in carne e ossa. Hanno scarse difese intellettuali e vengono sovrastati, fino alla gestione del denaro. Wanda Nara è l’esempio perfetto».
Il più grande in assoluto?
«Maradona. La rete all’Inghilterra dribblando mezza squadra fu la regina delle beffe. Maradona è stato la rivincita del proletariato contro i ricchi».
Giovedì Italia-Macedonia del Nord, se vinciamo finale playoff il 29 marzo: sensazioni mondiali?
«Vedo giocatori stanchi, spremuti. Speriamo sia così anche per macedoni, turchi e portoghesi».