il Giornale, 21 marzo 2022
Bruno Longhi si racconta
Piaceva a Nando Martellini, stesso garbo, stessa educazione, e per Maradona era, insieme a Gianni Minà, «il miglior giornalista del mondo». Bruno Longhi è stato la voce del calcio dal Trap a José Mourinho, il Niccolò Carosio moderno che ha traghettato la telecronaca pallonara da Bruno Pizzul a Fabio Caressa, passando per José Altafini. Confessa di non aver mai esultato per un gol se non per dovere professionale e di non avere mai tifato contro nessuno. Essendo figlio della Musica, avrebbe trovato stonato il farlo.
Bruno, cosa sognavano i suoi genitori per lei?
«Papà faceva il salumiere a Casorate Primo, dov’era sfollato per la guerra. Diceva sempre: tu devi fare il dottore commercialista. C’ho anche provato in Bocconi, ma la matematica non era fatta per me».
E lei cosa sognava?
«Come tutti i bambini di fare il calciatore. Anzi: ero sicuro di diventarlo. Lo scrissi in un tema in quinta elementare: raccontai il mio debutto a San Siro, il mio gol. È lì che ho iniziato a fare il cronista sportivo».
Peccato solo per San Siro...
«Ma io a 11 anni ho veramente debuttato a San Siro».
Scusi?
«In una delle partitelle che ai tempi i ragazzini del Nucleo addestramento Gioco Calcio, giocavano prima dei match di campionato».
E come andò?
«Un disastro. Toccai due palloni».
E poi?
«Passai alle giovanili dell’Inter, ma fu peggio. Andavo alle medie e facevo tre giorni di lezione al pomeriggio e tre giorni alla mattina. Allenamenti a singhiozzo, un giorno sì e uno no. Provai alla Solbiatese...».
Andò meglio?
«Macché. Avevo cominciato a suonare in un complesso musicale: sabato notte facevo le ore piccole e la domenica mattina non stavo in piedi. Suonavamo in centro Milano al Bar del Domm, per tornare a casa prendevo l’ultimo tram, quello dell’1.50, e alle sette e mezzo mi svegliavo per la partita. Mi dissi: meglio fare il Beatles che George Best».
Come si chiamava il gruppo?
«I Trappers, come i ribelli delle strisce di Capitan Miki e Blek Macigno che si battevano contro le giubbe rosse inglesi. Ero innamorato pazzo di quei fumetti».
E chi c’era con lei?
«Mario Lavezzi, mio compagno di scuola, anche se era una schiappa a pallone tanto che alle partite lo portavamo come massaggiatore. E Tonino Cripezzi, poi cantante dei Camaleonti, che faceva l’orefice».
E come mai non siete diventati i Beatles?
«Perché suonavamo molto bene ma ci mancava la voce. O meglio la voce sarebbe stata Tonino se i Camaleonti non ce l’avessero scippato. Quando uno dei loro andò militare ce lo chiesero in prestito. E non ce l’hanno restituito più».
Chi erano i suoi idoli?
«Gilbert O’Sullivan: Alone again fu il primo disco che comprai. Ma soprattutto i Beatles: sono la colonna sonora della mia esistenza».
Ha detto: i Beatles sono meglio del calcio. In che senso?
«Un concerto dei Beatles te lo godi dall’inizio alla fine, una partita di calcio non sempre. Poi quando c’è musica non c’è l’avversario. Sono comunque due amori: io ho vissuto e vivo di musica e calcio».
E allora perché nella suoneria del cellulare ha Elvis Presley?
«Perché Jailhouse Rock mi dà subito la sveglia appena squilla...».
Mai suonato i Beatles?
«Come Trappers avevamo inciso una cover di Yesterday. Si intitolava Ieri lei ma io e Lavezzi ce ne vergogniamo ancora adesso».
Che c’entra la Nannini con lei?
«Sempre con Lavezzi avevamo fondato un altro gruppo: i Flora, Fauna e Cemento. Si presentò questa ragazzina per un provino, suonava i pezzi di Carole King, ma era, come si dice in gergo, completamente squadrata, cioè non andava a tempo. Le dissi: Gianna, dammi retta, è meglio che cambi mestiere».
Vi siete più rivisti?
«Come no, durante un’ospitata alla radio, lei popolare rockstar, io telecronista affermato. Mi disse: ma tu sei quello che mi ha detto di cambiare mestiere? E io ridendo: esatto, ci ho visto proprio lungo...».
Però Mina ha cantato una sua canzone...
«Terre lontane. L’avevo scritta per Mino Reitano, anche se non era proprio il suo cliché, era più stile Crosby, Stills, Nash & Young. Ma Mina se ne innamorò e la riprese».
... e ha scritto canzoni con Mogol.
«Una si intitolava Azzurra e Little Tony la portò a Canzonissima. Non c’era solo Mogol-Battisti ai quei tempi, ma anche Mogol-Longhi...».
Ha detto: Mogol trovava le parole senza conoscere la musica.
«Lui è un poeta, paroliere è poco. Non conosceva la musica come tanti parolieri. Oggi ci sono cantanti che non conoscono la musica».
Non le piace la musica di oggi?
«Sono ancora uno strumentista e la musica è sempre bella a prescindere dal genere. Ma molta della musica che si fa oggi non lo è».
Le è piaciuto Sanremo?
«Brividi mi ha stupito perché bella e cantata bene. Poi mi è piaciuta moltissimo quella di Irama, una canzone vera, con una linea melodica. Altri sono figli dei social, vanno perché hanno followers. Ma siamo lontani dalla musica intesa come arte».
Per tornare a Mogol...
«Ha sempre avuto un intuito pazzesco. Si andava da lui, al Dosso, in Brianza, con quattro o cinque motivi musicali. Uno o due gli davano l’ispirazione e lavorava su quelli».
È vero che fu lei a ispirargli la Nazionale Cantanti di calcio?
«A quei tempi c’era il bar del lunedì, una specie di bar sport, con quelli della casa discografica. Mogol si affacciava alla sua maniera, rubando la sigaretta dalla bocca di uno che stava fumando, e chiedeva ma com’è questo calcio? Bello? Non sapeva nulla, al contrario di suo padre Mariano Rapetti che era un grande milanista. Così gli spiegai, lo portai a San Siro, gli feci da nave scuola».
E poi?
«Inventò un torneo di calcio con tutti quelli della Numero Uno: Battisti faceva il portiere, Mogol il terzino, c’erano Tony Renis, Adriano Pappalardo, la Formula 3. Poi arrivarono Gianni Morandi, Don Backy, Fausto Leali. Una volta contro la nazionale giornalisti finì persino a botte con Sandro Giacobbe e Riccardo Fogli a menare come fabbri».
Abitava a trecento metri da casa di Lucio Battisti...
«Ma il mio rapporto con lui nasce negli uffici della Numero Uno, manco sapevo che abitasse vicino a me».
Ma diventaste amici.
«Era molto geloso della propria privacy e difficilmente ti dava confidenza. La mattina arrivava con la Duetto e il foulard rosso, io salutavo e lui manco mi rispondeva».
E poi?
«Si creò una specie di alchimia tra noi due e tutto cambiò. Ridevamo sempre. Mi chiamava De Longhis. Poi c’era il nostro rito del caffè...».
Cioè?
«Offrivo sempre io. Una volta mi disse: stavolta lascia stare. Pagò il suo caffè ma non il mio».
Simpatico...
«Avevamo anche un codice per sentirci al telefono: uno squillo poi appendi, uno squillo poi appendi e al terzo lui rispondeva. Serviva a seminare gli scocciatori».
A pallone com’era?
«Giocava in porta con cappellino, guanti e ginocchiere. Una volta gli faccio quattro gol, uno glielo infilo sotto le gambe. A De Longhis nun stà a cantà vittoria, mi grida, che se mi metto a fare sul serio divento il numero uno anche qui».
Un giorno Monica Gasparini le telefona e le dice: Lucio è morto.
«Andavo a Parma, mi sono fermato in un’area di parcheggio e mi sono messo a piangere. Fu un pugno nello stomaco. Sapevo che non stava bene ma speravo si riprendesse. Mi capitò la stessa cosa quando sentii alla radio della morte di Scirea».
Racconti...
«In un incidente d’auto in California era morto due giorni prima Kazimierz Deyna, storico capitano della Polonia. Distratto, anche qui in autostrada, sento lo speaker dire il calciatore morto in un incidente stradale in Polonia e penso ma cosa blaterano questi? Deyna è morto in America. Quando dicono Gaetano Scirea mi sento male. Mi vengono i brividi ancora adesso Gaetano era una persona meravigliosa, un essere fuori dal tempo. Vice di Zoff, suo amico e compagno di squadra, una volta gli chiesi un commento e mi disse: devo chiedere a Dino se mi dà il permesso. Tenerissimo».
Fu pioniere delle radio private.
«La mia si chiamava Novaradio Milano, facevamo i primi tempi delle partite di calcio quando Tutto il calcio minuto per minuto si collegava all’inizio dei secondi. Eravamo degli imitatori più che dei creativi, ma è stata una grande palestra che ti faceva capire quale fosse la tua strada».
Ricorda la prima radiocronaca?
«Ottobre 1976, Inter-Cesena 1-1. Gol di Libera e Macchi. La prima telecronaca che ricordo invece fu un disastro: a Lione, finale di Coppa delle Coppe Atletico Madrid-Dinamo Kiev 0-3, andai in onda dopo mezz’ora perché non riuscivano a fare il collegamento audio».
Bruno Longhi comincia a Novaradio e Marco Civoli a Telenova, stesso editore: bella scuola.
«Ma la vera passione di Marco era il ciclismo. Una volta mi disse: il mio sogno è entrare in Gazzetta dello sport e scrivere di bici. E invece è diventato la voce dell’Italia mondiale del 2006».
E i primi anni della tv?
«La vita spesso dipende dagli Sliding Door. Collaboravo con Il Corriere di Informazione e il capo dello Sport Piero Dardanello mi dice: Telemilano 58 vuole un’intervista con Liedholm prima di Juventus-Milan, sei capace di farla? E io: Piero, faccio la radio Il giorno dopo mi arriva una telefonata, mi chiama uno con un accento milanese pesantissimo. E mi dice: mi ha chiamato Berlusconi, le chiede se può andare da lui».
E lei?
«Gli dissi: chi è Berlusconi? E lui: non conosce Berlusconi? Quello che fa le case? E io: senta se lei mi chiede chi è Mazzola e chi è Rivera è un conto, ma questo Berlusconi non so proprio chi sia».
Ha raccontato il Milan di Sacchi, l’EuroJuve di Lippi e l’Inter del Triplete. Un bel filotto.
«Sacchi mi dice sempre: dovevi commentarne di più di partite del Milan, avremmo vinto il doppio».
E Lippi?
«Andavamo in vacanza a Stintino, giocavamo a calcio assieme, c’era complicità. Gli pronosticai la vittoria della Juve in Coppa Campioni».
Allora è vero che porta bene. E com’è che è interista?
«Nella mia famiglia lo erano tutti e tutti sfegatati. Una volta, avevo sei anni, papà mi regala mille lire per comprare un completino di calcio, maglia, calzoncini e calzettoni, in vendita in un negozietto. Ne ha uno della Juventus e io prendo quello. Papà mi mandò a restituirlo subito».
Maradona disse che lei era il Maradona dei giornalisti?
«Diego era duro nei suoi principi ma aveva un’umiltà senza pari. Ha avuto due vite, santo e peccatore. Ma a Napoli ha fatto tanta beneficenza e non voleva che si sapesse».
La ispirò più Ameri o Martellini?
«Ronaldo, il Fenomeno, mi chiamava il Galvão Bueno italiano, il principe dei radiocronisti brasiliani. Mi sono ispirato a loro: davano ritmo al racconto di una partita».
Chi le piace di quelli di oggi?
«Sono tutti più bravi di quelli della mia età e hanno gli strumenti per informarsi che noi non avevamo».
Però?
«Mi piace Maurizio Compagnoni di Sky. Magari è meno tecnico degli altri ma ha una voce che dà importanza all’evento».
Le donne telecroniste?
«Fatico ancora a metabolizzarle. Migliorerò».
E ha inventato un linguaggio.
«Buon calcio a tutti è mio poi lo ha fatto suo Ilaria D’Amico. E anche l’autopalo e il rigore in movimento».
E «non dire gatto se non ce l’hai nel sacco»?
«Quella l’ho fatta dire a Trapattoni ora è un cult. Vede che porto bene?».