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 2022  marzo 21 Lunedì calendario

Vivere e ammalarsi in pubblico. Sul caso Fedez

C’è stato un attimo che questa storia è sembrata niente. È stato quando Chiara Ferragni e il marito sono stati un paio di giorni senza pubblicare niente su Instagram, e i commenti all’ultimo post di lei erano tra il recriminante e il paranoico, tra passanti che dicevano voi non potete permettervi di sparire voi dovete costanza al vostro pubblico, e passanti che dicevano oddio sono preoccupata l’ultima foto è di Leone vuol dire che Leone sta male se non postano più. (Leone è il primogenito di Chiara Ferragni, e la paranoica che così aveva commentato ora dirà cose come «me lo sentivo, io»). C’è stato un attimo in cui, a cena con amici, ridendo dei commentatori, abbiamo detto che poi figurati, torneranno dopo due giorni pubblicizzando una app che ti insegna a sconnetterti e a goderti la vita, o staranno girando la nuova stagione del documentario, o – c’è stato un attimo che sembrava tutto normale e inoffensivo e frivolo, il nostro riderne e l’altrui preoccuparsi.
Poi giovedì Federico Lucia ha fatto ciò che fa la sua generazione: ha acceso la telecamera del telefono e ha raccontato, con gli occhi pesti, che se non si stava facendo vedere era per un imprecisato problema di salute che sperava di poter risolvere, e se lo sperava era anche perché in quei giorni aveva letto storie altrui che gli avevano dato coraggio.
Tempo fa ho conosciuto un tizio più o meno della mia età che ha passato una parte della sua infanzia in studi televisivi; era guarito da un cancro all’epoca giudicato inguaribile, e in quel secolo la tv voleva fare quel che oggi vorrebbero fare i social: sensibilizzare. Più di tre decenni dopo, il tizio fa la sua vita, e però una parte di quell’identità gli è rimasta appiccicata: quando racconti la tua disgrazia, diventi la tua disgrazia. È per quella che la gente ti riconosce, è di quello che vogliono parlare con te. Mi ha raccontato che le persone si dividono in quelle che gli chiedono di scrivere un’autobiografia e quelle che gli chiedono come mai non abbia ancora scritto un’autobiografia. A Federico Lucia credo lo chiederanno meno: ha Instagram, mica gli serve un editore.
Non che sia rilevante, ma la mia linea rispetto alla morte e alla malattia condivise sui social è sempre stata la stessa: ognuno se la gestisce come può, come sa, come vuole. Ho amiche che si scandalizzavano a ogni dolore esposto a scopo di like, e poi quando è morto un genitore si sono trasformate in prefiche su piattaforma zuckerberghiana. Io stessa ho spesso l’impressione che le foto dagli ospedali siano tentativi di farsi dire «poverino, cosa t’è successo», poi mi sono ritrovata in un ospedale in cui la linea telefonica prendeva male ma il wifi funzionava e, invece di chiamare qualche amico, ho postato senza ritegno mele cotte e cateteri venosi. Il dolore e la paura e il lutto possono tutto, ma anche la noia può molto.
A un certo punto di “Una semplice domanda”, mentre chiacchiera con Alessandro Cattelan, Gianluca Vialli dice: «Adesso che so che non morirò di vecchiaia». È una frase straziante per moltissime ragioni, la principale delle quali è che è impossibile non voler bene a Gianluca Vialli, persino se come me non solo non l’hai mai incontrato in vita tua ma neanche hai un’idea precisa di come sia fatta una partita di calcio.
È anche la principale differenza tra Vialli e uno che è diventato famoso per la sua malattia prima di diventare famoso per altro, o tra Vialli e uno che è diventato famoso per la sua fama e non per un qualsivoglia talento: Vialli ha raccontato d’avere un cancro ma non lo identifichiamo col suo cancro. Non vorremmo che fosse per forza e solo quell’ingombro. Vorremmo potercene dimenticare. Vorremmo che lui e Cattelan continuassero a parlare di come si esulta diversamente sul campo da calcio e su quello da golf. Vorremmo che non dicesse mai una delle frasi devastanti che dice: «Ho tante cose che voglio ancora fare nella vita, e magari c’è l’ansia di non avere il tempo di portarle a termine».
Però la dice da Vialli: con un garbo squisito, senza essere mai patetico, senza cercare mai (la troverebbe facilissimamente) la nostra commozione.
La cosa che mi ha fatto più impressione, del caso Federico Lucia, sono state certe reazioni. Gente che passa il tempo a postare proprie foto nel terrore che ci dimentichiamo che faccia ha, gente che non manca mai di pubblicizzare un lavoro o una vacanza o un aperitivo, gente che vive in diretta quanto i parenti della Ferragni ma fatturando meno, gente che si sente migliore non si capisce in base a cosa (forse se hai meno d’un milione di cuoricini sotto le tue foto sei certificato come un autoscattista rispettabile), gente così ci ha spiegato senza mettersi a ridere che mai, mai, mai pubblicizzerebbe una malattia, mai avrebbe questo cattivo gusto, mai peccherebbe in tal modo di esibizionismo. E ora scusatemi, ho un ristorante in cui geolocalizzarmi.
Sono ragionevolmente certa che Vialli – anche se non avesse i cazzi suoi cui pensare, anche se fosse uno che vive in diretta – non si sarebbe mai messo a cavillare sul cattivo gusto del comunicare le proprie cartelle cliniche, perché se c’è una cosa che quelli non di pessimo gusto non fanno è cavillare sul buon gusto altrui.
Poi ci sarebbe da dire quanto siamo classisti anche rispetto alle cartelle cliniche. Non abbiamo fatto la morale a Vialli quando ha raccontato la sua malattia, così come non l’abbiamo fatta a Michela Murgia e Alessandro Baricco. È stato perché ce l’hanno raccontata con meno senso del tragico? Perché hanno mestieri che non siano (solo) raccontare loro stessi? Perché ci somigliano di più, sono come noi gente del Novecento per cui vivere in diretta è un gusto acquisito?
Non lo so, però a novembre la più bella canzone di Robbie Williams fa vent’anni. E a un certo punto di “Una semplice domanda” Vialli dice a Cattelan «E io, ti dico, ho paura di morire, eh», e io ho pensato a quella canzone che raccontava di uno cui tutto accadeva in pubblico – cantare canzoni d’amore, dare interviste in cui dire cattiverie, andare a pezzi – in quel tempo remoto in cui a vivere in pubblico erano in pochi. A quella canzone che parlava di pochissimi e invece parla di tutti, quella che a un certo punto faceva: non ho paura di morire, è che non voglio.