la Repubblica, 21 marzo 2022
La crisi delle materie prime e il ritorno all’autarchia
ROMA – Piantare il mais nei campi a riposo e ricavare i fertilizzanti da letame e liquame anziché comprarli dalla Russia. Estrarre più argilla per le ceramiche dalle miniere sarde, perché dall’Ucraina non arriva più. Riprendere rapidamente a estrarre metano dai giacimenti italiani, produrre ghisa a Taranto perché la guerra ha chiuso i rubinetti del Mar Nero. Riciclare tutto quello che si può e accelerare la realizzazione di impianti rinnovabili per diventare più autonomi in campo energetico. Non è ancora autarchia, ma è sicuramente un deciso spostamento verso l’autoproduzione e l’autonomia. E una sorta di deglobalizzazione, nei limiti del possibile. Perché ci sono materie indispensabili, come il nichel o le terre rare o il litio, che l’Italia non possiede e che al massimo si possono lavorare, evitando di dare un ulteriore vantaggio all’industria cinese. Cibo, cresce l’autarchia Negli ultimi 25 anni l’Italia ha perso il 28% di superficie agricola utilizzabile, più di un terreno su quattro è stato abbandonato o è diventato bosco incolto (e in parte cementificato). Ecco perché la guerra in Ucraina ci ha colpiti al punto che ci sono grandi aziende agroalimentari che hanno scorte di oli vegetali per poche settimane. Non solo: si sta per fermare la produzione di lievito, che ha bisogno di fosforo e azoto per trasformarsi, e nei macelli ci sono le file perché gli allevatori non hanno più mangimi. Secondo le stime della Coldiretti l’ Italia produce appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale, mentre per il latte e i formaggi si arriva all’84%. Nel 2020 c’è stata però un’inversione di tendenza: sotto la spinta dell’emergenza Covid, il valore delle esportazioni di cibi e bevande nazionali ha superato quello delle importazioni. Ovviamente il dato va valutato complessivamente: rimaniamo in forte rosso sulle materie prime agricole, e produciamo più frutta o vino di quanto riusciamo a consumarne. Ma in teoria l’autarchia sarebbe possibile, recuperando una quota ampia dei campi abbandonati, e non solo quel 5% di terreni a riposo che la Ue sta per autorizzarci a coltivare, ma solo per un anno, per far fronte all’emergenza. E soprattutto, spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, «si può fare a condizione di stipulare contratti di filiera che garantiscano prezzi remunerativi ai produttori». A queste condizioni, assicura, «siamo pronti a coltivare un milione di ettari aggiuntivi di terreno per produrre 75 milioni di quintali in più di mais per gli allevamenti, grano duro per la pasta e tenero per la panificazione». Per i fertilizzanti gli agricoltori si stanno attrezzando, affrancandosi dall’export russo: una modifica normativa permette di ricavarli dai residui di latte, carne e uova, producendo un “biodigestato” che contiene azoto, fosforo e potassio. Energia, non solo rinnovabili L’esigenza di rendere il Paese più autonomo dalle importazioni di combustibili fossili coincide con gli obiettivi di riduzione della CO2: c’è un piano che prevede la copertura da rinnovabili al 72% entro il 2030 per l’energia elettrica, piano che si sviluppa anche all’interno del Pnrr. «Siamo dipendenti al 75% dalle importazioni – ricorda Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia – ben vengano le fonti rinnovabili, ma dubito che arriveremo al 70%, per via dei troppi ostacoli burocratici. Bisogna riportare le competenze al centro, non lasciarle alle Regioni, perché altrimenti rimarrà sempre tutto bloccato. Nell’immediato, bisogna risparmiare energia e cercare altri Paesi fornitori». Il governo vuole favorire l’estrazione di gas naturale, ma anche raddoppiando la quota attuale non si potrà arrivare a più del 6-7% del fabbisogno interno. Litio, rame e terre rare Ma c’è anche un altro ostacolo alle rinnovabili: la loro produzione necessita di materie prime che non si trovano in Italia, e si estraggono in pochissimi Paesi al mondo, a cominciare da litio e terre rare. «Ne abbiamo moltissimo bisogno anche per le batterie delle auto e dei cellulari, per esempio. – ricorda Matteo Di Castelnuovo, docente di Pratiche di Sostenibilità alla Bocconi –. Così come ci servono cobalto, rame, nichel, platino. Si producono in Paesi che ci fanno meno paura della Russia, come Argentina, Bolivia, Australia, e in Africa, dove però la Cina ha già contratti per i due terzi della raffinazione. L’Unione Europea sta lanciando una strategia per le materie prime, al momento però solo una dichiarazione d’intenti». Le strategie delle imprese Schiacciate già dai costi dell’energia, anche le imprese si stanno riorganizzando, diventando un po’ più autarchiche. Confindustria Ceramica ha proposto di costituire consorzi per l’estrazione del metano italiano in più che servirebbe alle proprie imprese. E ha chiesto alle miniere sarde di produrre più argilla, per sopperire al blocco dall’Ucraina. Scontrandosi, peraltro, con tutte le proteste degli autotrasportatori per il caro energia che negli ultimi giorni si sono concentrate proprio in Sardegna. Per l’industria siderurgica il governo ha annunciato misure per favorire la produzione di ghisa da parte dell’ex Ilva di Taranto, che nel giro di alcune settimane (prima che finiscano le scorte, che Assofond calcola tra uno e tre mesi al massimo) potrebbe fornire quel 50% di produzione che arrivava da Russia e Ucraina, 500 mila tonnellate made in Italy. Ma potremo essere solo all’inizio se il conflitto dovesse proseguire.