la Repubblica, 21 marzo 2022
I deportati ucraini
dal nostro inviato Giampaolo Visetti POLOGY (MARIUPOL) – L’ ordine è annoiato come la voce del soldato russo che la infila nel finestrino: «Via tutto». Spogliarsi in mezzo alla strada bombardata dai carri armati, davanti a una figlia e a tre nipoti, tra le auto di altri disperati in fuga dopo diciotto giorni barricati in una cantina, per un vecchio non è solo un’umiliazione. È la prova che la vendetta di Putin contro Mariupol scava ora sotto i vestiti delle persone e tocca la pelle sporca di chi cerca di fuggire: per dimostrare di essere ormai padrona anche dei corpi di chi non uccide. «Ho 78 anni – ha risposto Evghenji mentre ubbidiva – e muoio di freddo. Vorrei salvare almeno i bambini». Nella città-cimitero sul Mare d’Azov la guerra è già oltre la frontiera della crudeltà che si consuma in quartieri bombardati anche dal mare. Adesso dilaga nei villaggi che la circondano, per convincere i sopravvissuti a rinunciare perfino alla speranza di rimanere ucraini nella terra della patria occupata. Le milizie del Cremlino si divertono ad «andare a caccia di spie e infami disertori nazisti». Possiedono cioè la licenza di sequestrare, rapinare, deportare e uccidere chiunque, senza che nessuno lo venga a sapere. Anche la breve colonna di macchine intercettate a Nikolske ha subìto lo standard del “trattamento Mariupol”, riedizione delle deportazioni naziste. «Devi metterti nudo – dice Oleh, studente di 16 anni – per dimostrare di non nascondere armi e documenti, video e foto sul cellulare: le prove dei crimini russi nella nostra città. Scrutano ogni piega, in cerca di malattie, tatuaggi della resistenza, o dei lividi che i fucili lasciano sulla carne di chi spara. Nude sull’asfalto e tra le mine anche le donne e molti bambini: i russi dicono che sono cagne che uccidono e ragazzini sfruttati per far filtrare piani e ordini ai nemici». Migliaia, prima dell’attacco finale, avevano trovato la forza di trascinarsi fuori da Mariupol, a costo di partire a piedi. Le autorità ucraine avevano garantito agli evacuati “corridoi protetti fino a Zhaporizhzhia”. Al posto dei check-point dell’esercito di Kiev, si sono trovati davanti i tank con la Z bianca di Mosca e le strade sbarrate dalle battaglie. Non c’è stato il tempo per la felicità di un inferno lasciato alle spalle. Gli sfollati, ricacciati indietro dai russi e dalle mine sparse tra i campi, vaga senza meta tra le isbe dei contadini. Cerca qualsiasi cosa sia bevibile e commestibile, un riparo non sottozero. A Mariupol, oltre 10mila persone non possono ritornare. Nei territori ancora ucraini a sud di Zhaporizhzhia, non possono più arrivare. Chi è scappato per non morire di fame nelle cantine, si spegne per inedia sulla terra dove seminava il grano. Il “trattamento Mariupol”, per i soldati russi, non è solo la regola del gioco osceno definito guerra. Nelle città rase al suolo e occupate, tra Mare d’Azov e Mar Nero, costituisce la sua più profonda sostanza. Infierire su chi resta, chi fugge e chi viene disperso, convince gli intrappolati ad accettare l’accoglienza dell’“opzione Russia”. Ora Mosca ha anche proposto un “cessate il fuoco tempora neo” (due ore di durata, dovrebbe scattare questa mattina presto), che ha il sapore di una richiesta di resa incondizionata ai difensori di Mariupol. E che l’Ucraina ha già respinto. Il terrore della morte, le conseguenze d’un sequestro, sanno essere convincenti. «La nostra gente – conferma Vadym Boychenko, sindaco di Mariupol – viene prelevata con la forza da case e rifugi, per essere deportata in Russia. L’invasore offre salvezza, cibo, riparo e lavoro». Negli ultimi 3 giorni sono oltre 60mila le persone – vecchi, donne e bambini – portate via da Mariupol. Cosa diventano? Evacuati messi al sicuro? Deportati? Prigionieri di guerra? Ostaggi da usare nei campi di lavoro? Sono ridotti al concentrato retoricamente versatile di questi profili. I deportati sono inviati in aree filtro, nei quartieri est oltre il fiume Kal’mius. Da qui, dopo identificazione, perquisizioni, pulizie corporali e dei telefonini, sono caricati sui treni per Jaroslav e Taganrog, nella regione russa di Rostov sul Don. «La meta finale però – dice Svyatoslava, costretta domani a raggiungere i suoi due bambini fatti partire da soli – è ignota. Dicono che per due anni finiremo in villaggi di zone povere: non potremo spostarci e lavoreremo per sostenere l’esercito di chi ci massacra». La propaganda di Mosca lavora con cura. Da una parte mostra le vittime del “sistema Mariupol”: gettate dagli ucraini nelle fosse comuni, alla fame, usate come scudi umani dalla resistenza nazionalista, uccise lungo i corridoi per evacuati che soldati di Kiev rinunciano a difendere. Dall’altra mette in scena lo spettacolo di liberazione e salvataggio russi: folle strappate dal sottosuolo, estratte dalle macerie, curate, dissetate e nutrite, accolte dai fratelli russi. Gli intrappolati a Mariupol possono scegliere? «No – dice Orest, cuoco nella birreria Knaipa centrata da un missile – : se la tua famiglia dopo diciotto giorni di orrore sta per cedere, non puoi scegliere. Accetti la scatoletta di pesce e sali sul vagone offerto dal nemico». Undici pullman per evacuati diretti a Zhaporizhzhia e 14 camion con aiuti umanitari continuano a essere bloccati dai russi nel villaggio di Azovske. A Mangush, vicino a Berdyansk, le auto di chi scappa vengono sequestrate ai posti di blocco. Dopo la strage, a Mariupol il racconto di Putin al popolo russo prevede solo la generosità del suo abbraccio. Opposta la realtà in città e sulla strada. Prima di Pology un’auto di fuggitivi è rimasta incastrata tra i carri armati russi. L’uomo al volante è stato fatto scendere, spogliato e costretto a piegarsi tra le risate dei soldati. Le borse della sua famiglia sono state svuotate sull’asfalto e razziate. Un computer e tre cellulari scarichi sono stati usati per una sfida di tiro a segno. La macchina è stata infine incendiata con un colpo di tank. «Pretendevano – ha detto quest’uomo – che consegnassi una telecamera che non ho mai avuto. Mi accusavano di essere una spia, cercavano le mie immagini dei loro crimini. Si sono presi una busta con salsicce sottovuoto e la bottiglietta dello shampoo di mia moglie». Queste persone, a piedi e senza poter chiedere aiuto, sono state costrette a tornare sotto le bombe che sommergono Mariupol. Come altre migliaia, sono distrutte al punto da lasciarsi deportare dai loro aggressori, senza opporre resistenza. Nessuno di loro sa perché questo succede.