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 2022  marzo 20 Domenica calendario

“NON HO NIENTE DA DIRE. SONO SOLO UN INTRATTENITORE” – QUANDO LEONARD COHEN ANDO’ IN GUERRA: L’INCREDIBILE TOUR DEL 1973 NEL SINAI TRA LE TRUPPE ISRAELIANE - CON LE CASSE DELLE MUNIZIONI SI COSTRUIVA UN PALCO, SPESSO CIRCONDATO DA CADAVERI SEMICOPERTI DALLA SABBIA DEL DESERTO - I TESTIMONI DI QUEI GIORNI LO DESCRIVONO IN DISPARTE, A FUMARE OPPURE SEDUTO SU UN ELMETTO “A GUARDARE LE STELLE” – IL DIARIO DI QUEI GIORNI POI MISTERIOSAMENTE SPARITI DALLA BIOGRAFIA. IGNOTE LE CAUSE CHE LO SPINSERO AL FRONTE MA COHEN RISPETTO’ UNO DEI PRECETTI PIÙ ALTI DELL'EBRAISMO. METTERSI SEDUTI ACCANTO ALLA DISGRAZIA E PIANGERE – VIDEO -

Nell'autunno 1973 Leonard Cohen vive sull'isola greca di Idra con la compagna Suzanne e il figlio Adam. Ha trentanove anni, è depresso e frustrato. L'anno precedente un tour in Europa e Israele non è andato come previsto. L'industria discografica lo disgusta. Il legame col suo pubblico, così gli sembra, si è incrinato.

«È finita», confessa a un giornalista, preannunciando un possibile ritiro. In un giorno di ottobre Cohen lascia Idra, raggiunge l'aeroporto di Atene e da lì si imbarca per Tel Aviv. In Israele è scoppiata la guerra. Egitto e Siria hanno attaccato a sorpresa nel giorno dello Yom Kippur. L'esercito arabo avanza e i soldati dello Stato ebraico cadono a decine. Cohen vuole essere di qualche aiuto nei kibbutzim.

Per caso, in un caffè, incontra un gruppo di musicisti e con loro parte per il fronte. Canterà le sue canzoni davanti a soldati impauriti, stanchi, stupiti per la comparsa, tra la sabbia del deserto, di una star internazionale. Questo episodio della vita di Cohen è raccontato in Il canto del fuoco di Matti Friedman (Giuntina, traduzione di Rosanella Volponi).

Friedman, giornalista canadese ed ebreo proprio come Cohen, ricostruisce la storia sulla base dei taccuini che l'artista tenne in quei giorni e soprattutto di un manoscritto di trenta pagine, ritrovato negli archivi della casa editrice McClelland & Stewart. un romanzo mai finito Il manoscritto è l'abbozzo di un romanzo sulla sua esperienza di guerra, che Cohen non portò mai a termine.

Tornate alla luce oggi, quelle trenta pagine danno il via alla storia. Friedman intervista i soldati, oggi settantenni, che videro Cohen al fronte; rievoca i giorni della guerra che cambiò per sempre la storia di Israele; racconta la genesi di una canzone come Lover Lover Lover, che proprio su quel fronte fu scritta.

Nel Canto del fuoco, Cohen resta spesso sullo sfondo, elusivo e misterioso come molte sue canzoni - è stata Joan Baez a dire che in esse «non tutto ha necessariamente un senso, perché vengono da un luogo così profondo». I testimoni di quei giorni lo descrivono in disparte, a fumare Gitanes blu; oppure seduto su un elmetto, la notte, «a guardare le stelle». Arrivava in una caserma, un bunker, una nave.

Cantava. Se ne andava. In effetti, si sa molto poco di uno dei viaggi musicali, ed esistenziali, più significativi del Novecento. Restano poche foto, un paio di articoli di giornale, il ricordo sempre più vago di chi c'era. Cohen stesso, nei taccuini e nel manoscritto, è avaro di dettagli. A parte Tel Aviv e Gerusalemme, non ci sono indicazioni precise sui suoi spostamenti.

Soprattutto, non ci sono accenni ai suoi compagni di viaggio. un tour senza date In realtà, Cohen non partì per il fronte da solo. Con lui c'era Matti Caspi, ventitré anni, timido, riservato, destinato a diventare uno dei migliori musicisti di Israele. Matti lo accompagnava alla chitarra. Ilana Rovina, caschetto di capelli biondi tagliato nella pietra, era la voce femminile.

Completavano il gruppo Oshik Levi, cantante di ballate all'epoca all'apice della fama, e Pupik Arnon, un comico poi diventato rabbino. Il loro tour non aveva date o luoghi ufficiali. Un camion arrivava e portava Cohen e compagni dove c'era bisogno. Con le casse delle munizioni si costruiva un palco, spesso circondato da cadaveri semicoperti dalla sabbia del deserto.

Se era notte, i fari dei camion servivano come luci di scena. Succedeva che un artigliere chiedesse di interrompere le canzoni. Il terreno tremava per la forza della detonazione, poi la musica riprendeva. Cohen esordiva con le canzoni più conosciute. Suzanne, So Long, Marianne, Bird on the Wire. Certe volte i soldati lo seguivano nel canto. Altre volte erano troppo stanchi e se ne stavano in silenzio a fissare il vuoto.

Nel Canto del fuoco Friedman allarga il racconto proprio ai soldati. La guerra è un grande collettore di storie e le vite di alcuni giovani israeliani si incrociarono, anche per un solo momento, con quella di Cohen. C'è Joel, arrivato dall'America in soccorso di Israele, fan di Cohen, che torna stravolto da una missione e stramazza a letto. Sogna di ascoltare Suzanne e quando si sveglia gli dicono che non era un sogno ma che il suo idolo l'aveva cantata proprio lì. C'è Shoshi, giovane pilota che non conosce Cohen ma che non dimenticherà mai l'emozione di quella musica.

C'è Orly, addetta ai radar, elettrizzata per l'arrivo di una grande star, che vuole che Cohen si riposi nella sua branda. A un'altra addetta ai radar, Ruti, non importa nulla di Cohen, ma ne scrive in una lettera ai genitori, per dirgli di come le cose al fronte tutto sommato vadano bene.

Sono - Joel, Shoshi, Orly, Ruti e tanti altri - parte di una generazione tradita, mandata a morire in un conflitto da cui Israele esce cambiato per sempre. Alcuni di quei giovani si ritroveranno per l'ultima apparizione di Cohen a Tel Aviv nel 2009. A fine concerto, Cohen passerà dall'inglese all'ebraico per benedire la folla. «non ho niente da dire» Pensato a incastri, come un puzzle in cui la Storia ribalta e ricompone i tasselli di vita individuali, Il canto del fuoco è anche il racconto di molti misteri.

Che cosa spinse Cohen a lasciare la sua isola greca per andare in guerra? È possibile fare solo delle ipotesi. Contò, probabilmente, l'essere cresciuto in una sinagoga di Montreal, nipote di un rabbino, educato nella lingua della Bibbia ebraica, fedele a un'appartenenza che lui aveva criticato ma da cui non si discostò mai. Se Israele chiamava, l'unica scelta era rispondere.

Possibile che in una fase di confusione e depressione, Cohen cercasse l'àncora di una tradizione antica - durante il viaggio, chiese ai compagni di chiamarlo non Leonard ma Eliezer, il suo nome ebraico. Possibile che l'ordine, la solidarietà obbligata, la nitidezza dei contorni di una guerra avessero per lui, in quel momento, un richiamo irresistibile. «Non ho niente da dire. Sono solo un intrattenitore», rispose a un giornalista che gli chiedeva perché fosse venuto in Israele durante la guerra.

Misteriose restano anche le ragioni che hanno poi spinto Cohen a stendere un pesante silenzio su quei giorni. Come ha detto un suo caro amico, Leon Wieseltier, «Leonard parlava delle sue esperienze più private, ma mai di quelle pubbliche». Per il timore, forse, che la sua poesia venisse svuotata a contatto con la vita vera.

È anche probabile che l'occupazione militare israeliana dopo il 1973 abbia imbarazzato Cohen e gli abbia suggerito il riserbo. Non è un caso che la versione originale di Lover Lover Lover parlasse dei soldati israeliani come dei "miei fratelli". Quel verso sparisce nelle versioni successive della canzone. Alla fine della guerra, Cohen tornò nella sua isola, da Suzanne. L'anno successivo ebbe con lei un'altra figlia, Lorca. Non parlò più di ritirarsi e nel 1974 pubblicò il suo quarto album, New Skin for the Old Ceremony.

La guerra dello Yom Kippur sparì dalla sua biografia pubblica, non dalla vena visionaria, quasi apocalittica, della sua musica. In uno dei rari accenni a quei giorni, molti anni dopo, Cohen disse che tornato da Israele aveva deciso di «prendersi cura del suo giardino». Forse, a quel punto, la disperazione interiore si era placata. Forse, con la sua presenza al fronte, aveva rispettato uno dei precetti più alti dell'ebraismo. Mettersi seduti accanto alla disgrazia e piangere.