Tuttolibri, 19 marzo 2022
Su "Infanzia" di Tove Ditlevsen (Fazi)
«Io so che ogni persona ha una sua verità. Per fortuna il mondo è strutturato in modo tale da permettere di tacere sulle verità del proprio cuore, ma i fatti incontrovertibili, crudi e grigi, stanno scritti nelle pagelle scolastiche, nella storia del mondo, nella legge e nei registri parrocchiali». La voce narrante di Infanzia, il primo volume dell’autobiografica di Tove Ditlevsen, la Trilogia di Copenaghen, è quella della scrittrice danese. Nata nel 1917 a Copenaghen e morta suicida nel 1976, Tove Ditlevsen è una delle principali scrittrici danesi, letta e studiata da anni, in Danimarca, non solo per i suoi romanzi, ma anche per le sue poesie. Tradotta in inglese per la prima volta nel corso degli anni Ottanta, la scrittrice è stata riscoperta nel resto del mondo solo nel 2019, quando la trilogia è stati ritradotta e ripresentata in un unico volume. In Italia, è grazie alla casa editrice Fazi che Infanzia è finalmente in libreria, nella bella traduzione di Alessandro Storti. Prima ancora di Joan Didion e di Annie Ernaux, la scrittrice danese trasforma la propria esistenza in opera d’arte: è a partire dalle vicende personali che Ditlevsen raggiunge l’universale; è raccontando la propria storia che riesce a narrare la vita di ognuno di noi. La scrittrice si concentra sulla quotidianità - quell’insieme di piccole cose che i bambini dicono o fanno, quel loro disperato bisogno di amore e attenzioni - ma lo fa con una lingua perfetta: mai una parola di troppo; mai una frase inutile; mai un giro di espressioni ricercate che, il più delle volte, ingannano il lettore facendogli credere che la letteratura alta sia sempre e solo quella faticosa o incomprensibile.
Al centro di Infanzia c’è una bambina innamorata dei libri che vuole diventare scrittrice: non appena si rende conto della forza delle parole, sente il bisogno di metterle per iscritto. Quando ne parla con i propri genitori, però, il padre taglia corto spiegandole che solo gli uomini possono scrivere: «Io, umiliata e offesa, mi sono chiusa in me stessa, mentre mia madre ed Edvin ridevano di questa mia folle idea. Ho deciso di non rivelare mai più i miei sogni, e ho tenuto fede a questa risoluzione per tutta l’infanzia». Il rapporto che la bambina intrattiene con i genitori, soprattutto con la madre, è difficile, doloroso, ambivalente. Tove non si sente mai sufficientemente protetta da sua madre, non tanto per mancanza di strumenti, quanto per assenza di empatia. È proprio quando la bambina è in difficoltà, d’altronde, che la donna la pugnala alle spalle. La relazione è talmente complessa che Tove Ditlevsen, pian piano, non sa più con esattezza cosa prova per sua madre: «Le mani di mia madre sanno di bucato. Lo detesto quell’odore, e mentre in silenzio perfetto usciamo dalla scuola, il cuore si riempie di quel caos di rabbia, dolore e compassione che per tutta la vita mia madre desterà sempre in me». Un caos che le fa odiare l’infanzia, che immagina come una bara lunga e stretta dalla quale nessuno può uscire da solo, e che considera responsabile della distanza incolmabile che la separa dalla madre.
Per la scrittrice, l’infanzia è buia e puzza. È qualcosa di spigoloso e duro, che fa male ogniqualvolta ci si va a sbattere contro. E anche se ogni bambino ha la propria, solo chi riesce a viverla con circospezione indossando la maschera dell’indifferenza riesce a uscirne indenne. «All’infanzia non si sfugge, resta attaccata addosso come un odore. La si sente sugli altri bambini, e ognuna ha un aroma tutto suo. Nessuno sente il proprio, perciò a volte si ha paura che sia peggiore di quello altrui». Nemmeno l’amicizia salva, nemmeno quando l’amica si chiama Ruth e incarna tutto ciò che non si è, fa tutto ciò che non ha l’abitudine di fare. Anche l’amicizia, prima o poi, si schianta infatti contro la durezza della vita. Soprattutto quando si cresce, e l’infanzia tanto odiata inizia a sgretolarsi, e solo allora si capisce che era in fondo un momento di quiete, protetto dalla scuola e dallo studio. Finite le media, Tove non può andare al ginnasio, non può continuare a studiare. Il padre non sopporta quelle che lui definisce le «femmine dalle pretese intellettuali», e l’adolescente deve rassegnarsi, aggrappandosi alle parole e ai versi, gli unici in grado di lenire il patimento e gli aneliti del suo cuore. «Ora sono sola nel salotto della mia infanzia, dove un tempo mio fratello si sedeva a martellare chiodi in una tavoletta, mentre mia madre cantava e mio padre leggeva il libro proibito, che ormai non vedo da anni. Sono passati secoli, e mi sembra di essere stata molto felice, a quell’epoca, nonostante il doloroso senso di indeterminazione dell’infanzia». Ma forse è proprio grazie a questa dolorosa nostalgia che il romanzo di Ditlevsen è così bello.