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 2022  marzo 20 Domenica calendario

Sull’Ucraina e sulla Russia

L’aggressione all’Ucraina serve a Mosca per confermarsi impero. Questione di vita o di morte. Senza impero, la Russia non ha ragion d’essere. Storia, geografia e autocoscienza le vietano di scadere a Stato nazionale-roba per europei definitivamente intontiti dagli americani. Da quando il 2 ottobre 1552 Ivan terribile conquisto il khanato di Kazan’ e inglobò nei suoi domini quelle terre di tono islamico e impronta mongola, aliene al cristianesimo ortodosso e alla radice slavo-variaga della Rus’ originaria, il destino multietnico dell’impero zarista poi della sua rimodulazione sovietica è segnato. La Federazione russa ne è sanguinante moncone, figlia degenere della sconfitta subita nel 1991 senza combattere, via suicidio dell’Urss. Catastrofe aggravata nel 2014 dalla fuga dell’Ucraina, terra madre consustanziale alla Russia, verso l’Occidente. Così pensa Putin. Con lui molti russi.
Pnon passare alla storia come lo zar che perse definitivamente l’impero, il presidente russo ha scatenato una guerra che deve riportarlo a controllare direttamente o per proconsoli l’Ucraina nata dall’Ottobre. Il bottino ideale, da raggiungere non troppo gradualmente, sarà simbolico e strategico. Kiev, culla della Rus’, è il premio simbolico. Il controllo via Odessa dell’affaccio sul Mar Nero e la riconnessione della Crimea al Donbas sono l’obiettivo strategico, espresso nel progetto di nuova Russia centrato su Odessa. Per chiudere agli a agli atlantici l’istmo di Europa. Ora o mai più. Approfittando della crisi americana e delle divisioni fra gli europei, Putin vuole riportare tutti i russi-gli ucraini per lui tali sono-a casa loro, nel mondo russo dagli imprecisati confini. Riservato a chi parla, pensa, agisce russo. Pax rustica. Niente a che vedere con la ricostituzione dell’unione sovietica, deviazione ebraico comunista dal mandato imperiale. Peccato capitale da redimere. Per riportare la Russia al posto e alla missione che le spetta nel mondo, da grande potenza capace di guardare negli occhi Stati Uniti e Cina. Megalomania? Certamente. Ma la differenza fra una grande azienda e una grande potenza sta proprio in questo: la prima, munita di partita doppia, obbedisce al calcolemus; la seconda mira alla gloria, ragione sociale di ogni impero. E ne fa, a suo modo, il cuore della pedagogia nazionale. Putin sa di giocarsi tutto, pelle compresa. Resta da vedere quanti compatrioti vorranno seguirlo. E fino a quando.
Noi occidentali stentiamo a capirne le intenzioni. La narrazione corrente, ipersemplificata dalla propaganda, recita più o meno così: c’è un pazzo al Cremlino che ha deciso di riprendersi l’Ucraina, costi quel che costi. Fermiamolo e tutto tornerà come prima, o quasi. Già, ma chi dovrebbe farlo? Non gli americani, in dilaniante seduta analitica, perché scatterebbe la terza guerra mondiale. Tantomeno singole potenze europee, giacché hanno espunto la parola guerra dal vocabolario (Germania, Italia) o non hanno risorse sufficienti per spaventare Mosca, salvo ricorrere alle atomiche (Francia, Regno Unito). Quanto a Polonia e paesi baltici, sono entrati nella Nato per contare sull’ombrello americano, non per esserlo. Restano gli ucraini, vittime designate di Putin. Da noi incoraggiati, armati e applauditi secondo il copione del bellicismo per delega, cantato nel 1897 dal ravennate Olindo Guerrini nelle quartine dedicate agli eroismi.
 
Quando nel marzo 2014 Putin scippò con «un piccolo atto di teppismo» (Vitalij Tretjakov) la Crimea all’Ucraina, Angela Merkel osservò costernata come il collega russo vivesse nel XIX secolo. Sottotesto: hai la testa affondata nel passato, crudo mondo di guerre, mentre io sono qui a godermi la pacificata Europa del dopo storia. D’accordo, geografia e storia non sono il punto forte dell’ex cancelliera, visto che davanti a una scolaresca le è capitato di scambiare Mosca per Berlino. E che l’Ottocento non è classificabile fra i secoli più guerrechi, comunque nulla rispetto al Novecento. Però il mantra del Putin fuori dal mondo lanciato da Merkel, virale nelle cancellerie europee, conferma che il tempo è soggettivo. Il guaio è che fischiando il fuori tempo a Putin, siamo finiti tutti in fuorigioco. Fino al 24 febbraio 2022 noi eurooccidentali eravamo straconvinti di poter godere in eterno della pax europea. In russi, ucraini, altri ex sovietici e cinesi – tacciamo di africani, mediorientali ed euro orientali – l’idea della pacificazione universale non ha mai attecchito. Gli americani parrebbero fermi al buio, causa indigestione da guerre a-strategiche, in attesa di ripartire.
Decenni di indottrinamento post storico e geografico ci hanno precipitato in un medioevo avanti lettera. Dove metro della potenza è il Pil, le diatribe geopolitiche del mondo civile detto Occidente sono regolabili in punto di diritto internazionale con timbro onusiano, l’attività umana volge al mero arricchimento. Insomma, a sbagliare secolo siamo (stati) noi. E siccome il principio di realtà conserva una sua cogenza, Putin ci ha colti spaesati. Questa si che è guerra asimmetrica. Russi e ucraini si battono per concretissimi obiettivi territoriali mossi da inconciliabili mistiche percezioni della titolarità degli spazi contesi. Noi euro fortunati ci affolliamo a bordo campo, nell’ardita speranza che l’Ucraina resista all’invasione grazie al nostro soccorso da remoto. La guerra in corso è il terzo atto della partita imperiale che la Russia gioca da cent’anni con l’Ucraina, nelle sue assai variabili forme e declinazioni regionali. Geografia informa che siamo nell’Europa in mezzo, contendibile e infatti sempre contesa fra Mosca e il suo avversario occidentale, ieri il Reich germanico oggi la Nato, ovvero l’impero europeo dell’America in divisa militare. L’Ucraina fu già decisiva nella prima guerra mondiale, quando Lenin la consegnò – formalmente indipendente – ai tedeschi con la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), salvo reinventarla sovietica nel 1922. Di nuovo insanguinata nella seconda fra Barbarossa e controffensive rosse. “Pacificata” Fatica dei sovietici, eppure capace di allestire per altri 10 anni una guerriglia piuttosto accanita nelle sue regioni occidentali. Da trent’anni in bilico fra Occidente e Russia. Fino al conflitto attuale, non necessariamente l’ultimo. In attesa, forse, del ritorno al classico scontro Berlino-Mosca, se davvero stessimo assistendo alla rinascita della “Germania geopolitica”, rivoluzione annunciata dalla decisione del cancelliere Scholz di investire 100 miliardi di euro nel riarmo tedesco e di spendere per i prossimi anni più del 2% del Pil per la difesa. Funerale del merkelismo. Sempre che per la terza volta in un secolo, l’Ucraina non sia decisiva posta in gioco di un conflitto mondiale. Non crediamo alle leggi storiche e nemmeno troppo ai numeri. Però constatiamo che le guerre mondiali sono sempre scoppiate in Europa. Più precisamente, nell’ex secondo mondo, centro geografico del vecchio continente, corrispondente durante la guerra fredda al Patto di Varsavia e dintorni. Europa semi europea, (non) vista dalle potenze occidentali. Pericolosamente infiammabile, mai definitivamente attribuita a un impero, con i suoi popoli in costante precarietà identitaria. La partita del 1914 – dissoluzione, spartizione ed eventuale ricomposizione degli imperi europei – risulta tuttora in corso. Ucraini e russi ne sanno qualcosa.
Per non evadere l’obbligo di rientrare con testa e corpo nello spazio-tempo effettivo, azzardiamo uno sguardo lungo sulle origini di questa guerra.
 
«Mi si spezza il cuore per quello che sta accadendo.non riesco a vedervi altro che una nuova guerra fredda, probabilmente destinata a trasformarsi in calda, e la fine dello sforzo di costruire una democrazia funzionante in Russia.vedo anche una totale, tragica e assolutamente non necessaria fine di un accettabile relazione fra quel paese e il resto dell’Europa». George Kennan, 93 enne patriarca del «contenimento della Russia», affida così al diario il 31 luglio 1996 la sua costernazione per la scelta dell’amministrazione Clinton di aggregare Polonia, Ungheria e Cechia alla Nato. già il 4 gennaio Kennan aveva notato al riguardo: “mi aspetterei una forte militarizzazione della loro (russa, n.d.r.) vita politica, accompagnata dalla roboante esagerazione del pericolo e dalla ricaduta nell’antica, venerabile visione della Russia quale oggetto innocente delle brame aggressive di un mondo malvagio ed eretico”.il percorso che porta dalla disintegrazione dell’Urss alla guerra in Ucraina è tutto in queste drammatiche righe.forse nessuno come Kennan, autore il 22 febbraio 1946 del “lungo telegramma” che suggeriva di accompagnare l’Urss alla tomba cui l’insostenibilità del sistema la condannava, avrebbe potuto disegnare con altrettanta precisione la traiettoria che l’amata/odiata Russia avrebbe percorso sotto la pressione dell’America trionfante.
Alcuni fra i decisori americani che promossero l’espansione della Nato fin dentro l’ex impero sovietico la intendevano grimaldello per scardinare la federazione russa come già l’unione sovietica.obiettivo: finirla una volta per tutte con l’orso.una volta ucciso e sezionato, le sue membra sparse, costituite in staterelli amici o inoffensivi, avrebbero incarnato la liberazione dalla minaccia russa che aveva ossessionato cuori e menti americane-ed europee-per metà novecento. Percorso fin troppo lineare.deterministico.prima la disintegrazione dell’impero sovietico.poi della stessa Urss, infine della federazione russa, quasi senza spargimento di sangue.neanche geopolitica fosse gioco di domino.applicazione al nemico dell’approccio disposizione male studiato dagli psicologi sociali: i comportamenti maligni dei russi derivano dalla loro connaturata malignità, non dall’ambiente o dalle circostanze.essenzialismo estremo, indifferente a storia e geografia divergenti.classificato in psicologia apri “errore fondamentale di attribuzione” o “di corrispondenza”. Vulgo: Conferma automatica dei propri pregiudizi, la sua applicazione geopolitica è la teoria del carattere nazionale, versione elegante del razzismo.il fascino di questo (ir)riflesso è che ti risparmia studio e ragionamento. Il problema è che spesso induce effetti indesiderati anzi opposti al previsto. Sull’una e sull’altra sponda della mobile linea di partizione fra gli imperi di Mosca e Washington, tale postulato comporta l’incapacità di mettersi nella testa dell’altro.così si finisce a negoziare con se stessi.finché giunti sull’orlo del baratro, guardandoci in faccia da vicino ci specchiamo negli occhi dell’altro. Scoprendoci nostri prigionieri. Oggi ci siamo.
Potevamo non esserci? sicuramente sì. E se ci siamo nessuno è innocente.non lo siamo noi occidentali, pure convinti di esserlo. A cominciare dagli Stati Uniti d’America, che vinta la guerra fredda senza davvero volerlo, non ha saputo che fare dei vinti.quando l’avversario ti crolla davanti e tu non sai come trattarlo, ne diventi prigioniero. la tragedia del non-rapporto fra America e Russia dopo il suicidio dell’Urss è tutta qui.doppia afasia. Soliloqui spacciati per dialogo.finché le parole finiscono e a parlare sono le armi.russe.
La parabola che porta all’invasione russa dell’Ucraina comincia il 9 febbraio 1990, quando il segretario di Stato James Baker chiede a Mikhail Gorbaciov: “preferisce vedere una Germania unita fuori della Nato, indipendente e senza forze armate americane, oppure una Germania unita vincolata alla Nato, con la garanzia che la giurisdizione della Nato non si sposterà di un pollice verso est?”.Domanda retorica. Perché su un punto Sovietici e americani concordano: dei tedeschi non si fidano, due germanofobie a diversa intensità, come inevitabile fra chi dal Reich è stato invaso e chi lo ha invaso per non esserne più minacciato. Un pollice sono 2,54 millimetri. Trent’anni dopo, l’alleanza Atlantica è avanzata di circa 500 km dall’Elba al Bug, quasi 2000 se consideriamo l’intero fronte dal Baltico al Mar nero.cammin facendo ha inglobato tre Stati ex sovietici-Estonia, Lettonia, Lituania-che insieme a Norvegia e Polonia affacciano direttamente sulla Russia. E viceversa.malgrado alla piccola frase del segretario di Stato USA seguano negli anni immediatamente successivi analoghe assicurazioni occidentali, spesso ambigue, spesso informali.
Baker esprime il punto di vista prevalente a Washington sotto George Bush senior: impedire che la perdita dell’impero europeo comporti la disintegrazione dell’Urss, con relativa dispersione delle 35.000 testate atomiche a disposizione dell’armata Rossa.l’ultimo difensore dell’unione sovietica è il presidente degli Stati Uniti.lo testimonia il suo sferzante monito al parlamento ucraino, il 1 agosto 1991, in cui su suggerimento di Gorbaciov denuncia il “nazionalismo suicida” degli ucraini (ciò che l’anno dopo gli costerà il voto etnico degli slavi americani, e forse la rielezione).ancora in dicembre, quando Eltsin si accinge a brindare al trionfo della Russia contro il fantasma dell’unione sovietica, il presidente augura successo a “Michael”  nella “riunificazione” ovvero rianimazione del cadavere della creatura bolscevica, ormai decomposto. Come scriverà poco dopo l’ambasciatore americano a Mosca, Robert Strauss, “l’evento più rivoluzionario del 1991 per la Russia potrebbe non essere stato il collasso del comunismo, ma la perdita di qualcosa che i russi di ogni parte politica considerano parte del proprio corpo politico, e molto prossimo al cuore: l’Ucraina”. In quel frangente è assurta la terza potenza atomica del mondo grazie alla custodia di una quota rilevante dell’arsenale ex sovietico e alla disponibilità di tecnologie e scienziati atomici, in vendita al miglior offerente.solo l’anno dopo Washington assicurerà la concentrazione di (quasi?) tutte le testate nucleari in Russia, sotto il controllo-si fa per dire di-Eltsin. Il quale in cambio offre a Baker il segreto dei segreti: i punti di lancio dell’eventuale attacco nucleare sovietico agli Stati Uniti.la denuclearizzazione dell’Ucraina è infine codificata nel memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994 con cui Russia, Stati Uniti e Regno Unito si impegnano a proteggere sovranità e integrità territoriale della Repubblica ex sovietica.da allora Kiev è meno importante per Washington. Non per Mosca.
Si fa invece martellante la pressione dei già satelliti dell’Urss sugli Stati Uniti per ottenere l’ammissione alla Nato. La Polonia arriva a minacciare di costruirsi la bomba da sola.ancora nel gennaio 1994 il presidente Clinton spiega ai leader dell’alleanza: “perché dovremmo tracciare una nuova linea attraverso l’Europa, solo un poco più a est?”. Così progetteremo il miglior futuro possibile per l’Europa, ossia “un’Ucraina democratica, un governo democratico in ciascuno dei nuovi Stati indipendenti dell’ex unione sovietica, tutti impegnati nella sicurezza comune chiudi”. A fine anno, la guerra scatenata da Eltsin e contro i separatisti ceceni confermerà i vicini centro europei di Mosca nell’urgenza di porsi sotto l’ombrello USA e avvierà la svolta di Washington verso la loro graduale ammissione nell’alleanza compiuta nel 1999 a partire dall’integrazione di Varsavia Budapest e Praga.
Il pollice di Baker resta una spina in gola ai leader russi.un documento appena emesso dal National Archives di Londra sembra corroborare la loro tesi. L’appunto del diplomatico tedesco Jürgen  Chrobog rivela come nella riunione dei direttori politici dei ministri degli esteri francese, britannico, statunitense e tedesco tenuta a Bonn il 6 marzo 1991 l’ingresso nella Nato dei paesi dell’ex patto diversa aria sia bollato “inaccettabile": “abbiamo messo in chiaro durante i negoziati 2 + 4 (per l’unificazione tedesca, fra le due Germania e le quattro potenze vincitrici Urss USA Francia Regno Unito) che noi non avremmo esteso la Nato oltre l’Elba” la menzione del fiume Elba, confine fra Germania occidentale e orientale indica addirittura l’intenzione di non includere nell’alleanza il territorio della DDR annesso sette mesi dopo alla Bundesliga
Sulle promesse non mantenute dall’Occidente prima Eltsin e poi Putin costruiscono una narrazione vittimistica che verte sul tradimento statunitense della parola data e ripetuta Germania unificata di non avanzare l’impero americano a ridosso della Russia. Versione recitata da Putin il 10 febbraio 2007 nell’intervento alla conferenza sulla sicurezza di monaco, che riletto oggi suona avvertimento: “la Nato a posto le sue forze avanzate al nostro confine, anche se noi non reagiamo a fatto a queste azioni.non abbiamo il diritto di chiedere contro chi è diretta tale espansione? E che ne è stato delle assicurazioni dei nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del patto di Varsavia?”.Nell’agosto 2008 Putin passa dalle parole ai fatti. Scatena rappresaglia contro la Georgia, cui insieme all’Ucraina gli occidentali avevano socchiuso la porta della futura ammissione nell’alleanza. Prepara la marcia su Kiev.chiave per la super Russia da inventare entro metà secolo.
a ridurre l’aggressione russa all’Ucraina seguendo di malintesi, doppiezze, malizie e orgogli feriti sarebbe fuorviante. Al fondo c’è la questione delle questioni. Irrisolta, forse irresolubile.che cosa fare dei vinti se questi, in quanto russi, non sono assimilabili al tuo canone di civiltà? Un salto a Parigi aiuta a capire perché a questa domanda l’Occidente non seppe mai rispondere. È perché probabilmente non saprà farlo neanche alla fine di questa guerra.
 
Il 18 gennaio 1919, quarantottesimo anniversario dell’elevazione di Guglielmo I al trono imperiale tedesco nella Galleria degli specchi della reggia di Versailles, si inaugura nella sala dell’Orologio del Quay d’Orsay la conferenza di pace chiamata ad codificare gli esiti di una guerra che sul fronte russo e su quello ottomano continua a infuriare. Vi partecipano una trentina di delegazioni, fra cui gli inviati della Repubblica Popolare Ucraina, entità pressoché virtuale. Mancano i russi. Eppur ela Francia, maestra di cerimonia e guida della Cpmferenza assiene a Stati Uniti, regno Unito e Italia, deve la sua sopravvivenza alla Russia. Se lo zar non avesse attaccato il cugino tedesco sul fronte orientale costringendolo a incardinarci un’immensa quantità di truppe, a Versailles, si sarebbe replicata all’ennesima potenza la liturgia del trionfo germanico. Con il figlio del primo Kaiser elevato a imperatore d’Europa. Ma della mischia in corso sulle rovine dell’impero zarista, con i bolscevichi eversori dell’imperatore impegnati in una più che incerta guerra civilene insieme internazionale, i negoziatori sannon quel che potevano intuire dell’altra faccia della luna.
Il primo ministro britannico, David Lloyd George, per il quale Kharkov non  è una città russa (oggi ucraina) ma un generale, estende all’umaniutà la sua personale ignoranza e la butta in confusione: «la Russia è una giungla nella quale nessuno sa che cosa accade a poche iarde da sé». E il presidente americano Woodrow Wilson: «Io li vedeo così. Una massa di genti impossibili che si ammazzano tra di loro. Con loro non puoi trattare. Meglio chiucerli tutti a chiave in una stanza e dirgli che quando avranno risolto le loor dispute apriremo la porta e cominceremo a negoziare».
Quanto a clemenceau, capo del governo francese, non perdona a Lenin di aver estratto la Russia dalla mischia patteggiando la disastosa pace di Brest-Litovsk che ha permesso ai tedeschi di concentrarsi sul fronte occidentale. Risultato: la Russia non firma il Trattato di Versailles. Parigi 1919 è l’opposto di Vienna 1815. Alessandro I, Castlereigh, Metternich e Hardenberg avevano negoziato danzando con la Francia vinta mirabilmente rappresentata dal camaleonte Talleyrand. Lloyd George, Wilson, clemenceau e l’improbabile quarto grande Vittorio emanuele Orlando possono fare a meno dei bolscevichi e degli altri dlegati russi. Da allora la Russia in tutte le sue forme – salva la parentesi 1941-1945 – è fuori da qualsiasi concerto europeo e occidentale. Oppure vi è ammessa su sgabello, come ai tempi del Consiglio Nato-Russia. Inteso alla lettera: gli atlantici consigliano i russi, sordi da quell’orecchio.
Ma tra 1991 e 2007 Mosca spera di rientrare nel gioco europeo. Obiettivo oggi impensabile. Sarbbe stato possibile riammetterla in un sistema di sicurezza collettiva allo scadere della guerra fredda? Modello Vienna anziché Parigi? Tecnicamente sì. Se gli Stati Uniti avessero voluto. Se avessero intuito e accettato che la Russia o è impero o non è. E che a torto o a ragione si considera e vuole essere trattata da grande potenza, anche se ad occhi altrui non lo è. La logica del cordone sanitario, vigente dall’Ottobre, non è ideologica ma geopolitica. Al Cremlino possono sedere imperatori comunisti o reazionari, moderati o aggressivi, nulla cambia. Neanche per chi in America, dopo Gorbaciov, pensa sia il momento di cambiare schema. Non intendiamo solo Kissinger e associati, viennesi d’inconcussa fede, assai influenti sotto il primo Bush. Persino Zbigniew Brzezinski, americano di ceppo polacco, che negli anni Ottanta accelera la fine dell’Urss apparecchiandole la trappola afgana, propone di superare la sindrome di Parigi. Istruttivo rileggerne il saggio del 1992 sulle conseguenze della guerra fredda.
A differenza dei più, il “falco” Brzensinski vede nella catastrofe sovietica non la morte del comunismo ma l’agonia dell’impero russo. Sogno di ogni polacco e di molti americani: «il collasso dell’Urss, vissuta per oltre settant’anni, è oscurato dalla disintegrazione del grande impero, durato per più di tre secoli. Grandioso evento storico, gravido di incertezze geopolitiche». Brzezinski propone: «L’Occidente deve suppportare tale transaizione con lo stesso impegno e la stessa magnanimità dell’America dopo la vittoria del 1945». Obiettivo: «Una Russia davvero postimperiale, che possa prendere il posto che le spetta nel concerto delle nazioni democratiche abilitate a guidare il mondo. E il consolidamento stabile dei nuovi stati indipendenti non-russi (…) in modo da creare un contesto geopolitico duraturo che contribuisca a trasformare la Russia in uno stato post-imperiale». Di più: «l’Occidente fa bene a marcare che vede il futuro destino della Russia quale grande protagonista nel concerto delle nazioni (…) Ma per diventare tale la Russia – come Giappone e Germania prima di lei – deve abdicare alle sue aspirazioni imperiali». In cambio, Mosca «deve poter percepire che non c’è più un cordon sanitaire che la separa dall’Occidente». E come può doiventare post-imperiale questa Russia dei sogni? Garantendo l’indipendenza dell’Ucraina. In somma, l’agenda dell’Occidente per il dopo-guerra fredda è «assicurarsi che la disintegrazione dell’Urss produca la pacifica e duratura fine dell’impero russo, e che il collasso del comunismo significhi davvero la fine della fase utopica della storia moderna».
 
Lunedì 21 febbraio 2022 Putin, dal suo studio sul Cremlino dirimpetto al Mausoleo di Lenin, sta finendo di distruggere in diretta il mito di Lenin. Colpevole di aver ceduto ai “nazionalisti” quando concesse il diritto incondizionato di secessione alle repubbliche confederate dell’Urss, che ne faranno uso in età gorbacioviana per evadere dalla gabbia sovietica; di aver sottratto alla Russia enormi porzioni di territorio per soddisfare le pretese degli etnonazionalistici periferici impegnati a corrodere lo spazio imperiale; e, peggio, di averlo fatto per il puro gusto del potere. Un crimine. Tutto per ricordare che l’Ucraina di oggi, nata nel 1991 entro i confini dell’omonima repubblica sovietica, è figlia del regime bolscevico. Anzi, può essere chiamata l’“Ucraina di Vladimir Lenin”. Putin cita documenti d’archivio che rivelano le “dure istruzioni” con cui l’araldo dell’Ottobre impose di traslare il Donbas dalla Russia all’Ucraina, così come nel 1954 il più eccentrico fra i suoi epigoni, Nikita Krusciov, regalò la Crimea russa all’Ucraina sovietica. Chiaro il messaggio: riportando nel 2014 la strategica penisola sotto la sovranità russa, poi facendo approvare dalla Duma il decreto di riconoscimento delle due repubbliche filorusse nel Donbas – Lubans’k e Donec’k – infine invadendo in profondità il territorio ucraino, Putin comincia a riparare il danno inflitto dai comunisti all’impero. Con in mente piani di spartizione da tempo dettagliati e continuamente aggiornati (…) in un colpo solo delegittima l’Urss e per conseguenza l’Ucraina come entità statuale, rilegittima l’impero degli zar di cui si propone continuatore, apre uno spazio vertiginoso al revisionismo russo.
Vedi anche il suo articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini” pubblicato il 12 luglio 2021: intende dimostrare attraverso una galoppata millenaria che russi e ucraini sono lo stesso popolo. Con i bielorussi compongono la nazione russa, una e trina. Un solo popolo in tre vesti: grande Russia, piccola Russia e Russia bianca. Bene Stalin contrario al federalismo di Lenin. Unità di lingua su documento del Seicento.
(Al tempo degli zar) la Piccola Russia è granaio ma anche polmone industriale ed energetico (carbone) dell’impero. Affacciata sul Mar Nero, in vista della Seconda Roma che la Terza anela da sempre per accedere al Mediterraneo e agli oceani. Il risveglio ucrainista del tardo Ottocento evoca uno spettro alla corte di San Pietroburgo: finire come l’Austria-Ungheria, dove il ceppo dominante germanico vale appena un quarto della popolazione. Contromodello e nemico giurato dei poanslavisti russi. Se ucraini e bielorussi, oltre un quinto dei sudditi dello zar, si vedessero nazioni, l’impero scadrebbe a comprimario regionale o si estinguerebbe. Già nel 1876, quando il separatismo è affare di esigue elite, un memorandum governativo stabilisce: «Niente divide i popoli come le differenze di lingua parlata e scritta. Permettere la creazione di una letteratura speciale per la gente comune del dialetto ucraino significherebbe collaborare all’alienazione dell’Ucraina dal resto della Russia (…) consentire  alla separazione di tredici milioni di piccolo-russi sarebbe massima trascuratezza politica, specie considerando il movimento unificante nella tribù germanica che si sviluppa intorno a noi». Saranno proprio censura e oppressione zarista a sollecitare la coscienza della propria alterità in una popolazione abbastanza indifferente al richiamo identitario, tanto che il termine “ucraino” diventerà d’uso comune solo dopo l’Ottobre.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli ucraini abitanto per tre quarti l’imper russo, il resto è sotto gli Asburgo, spartiti fra galiziani in Austria – dove li si tratta da “tirolesi dell’Est” – e ruteni in Ungheria. La Galizia austriaca, centrata su Leopoli, è il magnete dei nazionalisti. Antirussi e antipolacchi. Qui affluiscono intellettuali militanti che distillano narrazione storica e letterature proprie, Movimento che continuerà dopo la cessione di quella terra alla rinata Polonia, nei 1919. Siamo nel Piemonte dell’Ucraina futura. E forse di quel che resterà dell’Ucraina dopo l’invasione ordinata da Putin, per il quale Leopoli e regione non sono che un pezzo di Polonia stupidamente annesso da Stalin dopo la vittoria nella Grande guerra patriottica come corridoio verso le province centro-europee del suo impero. E che ora funziona a rovescio, da passaggio attraverso cui gli atlantici alimentano e armano l’opposizione a Mosca.
(…) Stalin commetterà l’errore cardinale della sua carriera pappandosi quel goloso spicchio dell’Ucraina occidentale. Stabilisce lo storico Dominic Lieven: «Senza la Galizia, è perfettamente possibile che Russia, Ucraina e Bielorussia sarebbero sopravvissute al decesso del comunismo sotto forma di una federazione degli slavi orientali».
Leopoli in Ucraina, Cracovia in Polonia le città principali della Galizia che oggi sta a mezzo tra Ucraina e Polonia.
Stalin amava tracciare su mappa il profilo dei suoi bottini territoriali con un matitone rosso e blu a punta larga
 
 
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