Corriere della Sera, 20 marzo 2022
Intervista a Giuseppe Penone
Maestro Giuseppe Penone, perché l’opera donata a Bergamo si intitola «Indistinti confini»?
«Quando sono stato contattato dalla Fondazione Sacchetti per questo progetto, ho immaginato subito qualcosa di vivo. Qualcosa che non si fermasse ad una celebrazione ma calato nel reale. C’è dunque un blocco di marmo bianco di Carrara, circondato da un bosco di betulle bianchissime, una specie himalayana. Potrebbero sembrare due cose diverse tra loro, ma anche la pietra ha una sua vita, una vita minerale. Ha una sua storia, cambia, come cambiano gli alberi – che in questo caso devono ancora crescere».
Il legame tra mondo umano, vegetale e minerale è la voce intima del suo lavoro dagli anni 60, per esempio in una delle sue prime serie, «Alpi marittime».
«Sì e qui vorrei che questi indistinti confini, appunto, fossero il simbolo di una memoria che non si interrompe, che prosegue attraverso altre forme. Il blocco di pietra è stato scavato seguendo le vene del marmo. Dico vene perché anche la pietra si trasforma».
Come?
«Una volta un cavatore di pietre di montagna mi disse che un blocco può rimanere intatto per secoli, sotto la roccia, prima di essere portato in superficie. Quando entrano a contatto con l’aria e la luce, alcuni blocchi tendono a diventare polvere. Ma poi potrebbero anche trasformarsi, entrando in rapporto con vegetali o flora marina. Ecco perché la natura sa essere al contempo metamorfosi e memoria: il messaggio che vorrei che arrivasse non solo ai cittadini di Bergamo, così colpiti dalla pandemia, ma a tutti».
Se all’origine della pandemia c’è una zoonosi e, dunque, un riflesso della deforestazione, quanto è grande il divario tra noi e la natura?
«Ormai siamo abituati a pensare a noi stessi come un qualcosa di separato dalla natura, ma non è così. Nella mia ricerca, nelle mie sculture che hanno coinvolto elementi vegetali e minerali, io ho sempre cercato quel legame strettissimo tra gli elementi. Per esempio, nella serie Essere fiume (1981, ndr) ho lavorato su una pietra riproducendo l’azione che su di essa avrebbe avuto l’acqua, dunque levigandola, cambiandone i contorni. Ho ridotto a un tempo breve quel che il fiume fa in decenni».
Si è fatto natura.
«Sì».
Lei è nato a Garessio, nel Cuneese. L’Accademia di Belle Arti è venuta dopo gli studi di Ragioneria. Come nasce un percorso come il suo, in cui l’azione di un artista si connette così strettamente ai fenomeni naturali?
«Sono nato vicino ai fiumi e ai boschi! Ma non solo. Ho sempre praticato il disegno perché da bambino studiavo con il sussidiario: le immagini qui erano quelle di Leonardo o Giotto. Oggi le illustrazioni sono fatte da adulti per i bambini, come se questi non potessero cogliere la grandezza leonardesca, che errore. Frequentando l’Accademia ad un certo punto ho deciso di seguire una mia strada».
Lei ha usato spesso il bronzo. Perché?
«È curioso: nelle classiche lavorazioni si usano elementi vegetali, tubicini di canna. Tornano gli universi vegetali e minerali. Per me la scultura è stata sempre un modo di comprendere il mondo, di inquadrarlo. Sia quando ho scavato sia quando ho innestato o duplicato. Chi scolpisce deve adattarsi alla materia, non dominarla, sovrastarla».
Un po’ come dovremmo fare con il Pianeta.
«Penso che quello dell’ambiente sia un tema molto importante, anzi, cruciale, ma di difficilissima soluzione. Sono scettico sui rimedi troppo semplici e immediati, bisogna farsi una domanda sincera: davvero siamo disposti a rinunciare a una serie di cose dateci dal progresso e dunque a tornare indietro di secoli? Perché un tempo uomini e natura erano molto più vicini, pensiamo all’epoca prima della meccanizzazione agricola. Poi le cose sono cambiate e io oggi sento parlare di problemi enormi senza la giusta consapevolezza».