Ci sono artisti che sanno navigare lo spazio tempo per mostrarci ciò che siamo o stiamo diventando. Cao Fei, 44 anni, cinese di Guangzhou, è una di questi. Basta varcare la soglia dell’ultimo piano del museo Maxxi, a Roma, dove fino all’8 maggio è allestita la personale Supernova , per percepire l’intelligenza del suo percorso. Figlia di una coppia di scultori («le loro grandi sculture rappresentavano spesso personaggi gloriosi, eroi della storia cinese. Passare il tempo con loro mi ha fornito un’infanzia diversa», dice ricordandoli) ha visto decollare la sua carriera a fine anni Novanta. Fu proprio Hou Hanru, oggi direttore artistico del Maxxi e curatore della mostra con Monia Trombetta, a portare in Europa la sua operea Imbalance 257 . In
Supernova sono riuniti i suoi lavori sulla città contemporanea ( RMB City , Haze and Fog , La Town ), e il nucleo di opere del progetto HX, dedicato al quartiere di Hongxia, a Pechino, dove c’è il suo studio, in un ex cinematografo. Ne fanno parte il raffinato lungometraggio Nova (che al Maxxi si vede seduti su sedie di legno da vecchio cinema) e l’installazione The Eternal Wave , da percorrere con gli occhiali da realtà virtuale. A oltre vent’anni dall’esordio, Cao Fei continua a mescolare materie e mezzi per riflettere su ciò che le preme: il futuro della relazione uomo/ macchina e uomo/ambiente.
Il fulcro di molte sue opere è l’urbanizzazione sulla società cinese e il rapporto tra modernità e tradizione. Ciò che accade in Cina è un segnale per il mondo?
«La Cina ha attraversato una fase di crescita eccezionalmente rapida, trasformandosi da paese in via di sviluppo a potenza mondiale. Il mio Whose Utopia(2006) fu girato nell’era della fabbrica mondiale; il paesaggio urbano era strabordante e dominato da industrie manifatturiere. Ora sta cambiando di nuovo: web, scienza e tecnologia, nuove fonti energetiche sono il prossimo obiettivo dello sviluppo nazionale. L’ascesa della Cina la rende il più grande beneficiario della globalizzazione: ogni sua mossa influenza la comunità internazionale. Abbiamo nuovi problemi causati dal rapido sviluppo e vecchi problemi non risolti e riemersi durante la pandemia».
La città reale o immaginaria è lo scenario di questa dialettica. Le megalopoli sono l’unico futuro?
«Coltivo da tempo l’idea di fuggire dalla città, che si manifesta nei miei ultimi progetti. L’anno scorso sono stata al confine settentrionale della Cina, nelle vaste praterie, tra laghi, altipiani e villaggi delle minoranze etniche. Ultimamente ho portato la famiglia a scalare montagne non lontano da Pechino. Forse è una svolta verso la natura dovuta al fatto che l’urbanizzazione ha raggiunto uno stadio estremo. Tornando in città, alla vista dello skyline dei grattacieli ho provato una depressione inspiegabile, mai sentita prima. Sensazione che si è intensificata durante la pandemia».
Qual è il legame tra documentare la realtà e reinventarla?
«Il mio lavoro è un veicolo tra realtà e finzione: la realtà reinterpretata diventa gradualmente affidabile e tale interpretazione può interferire con la percezione del reale. Man mano che la mia carriera creativa evolve, reale e immaginario si riferiscono l’uno all’altro e si interpretano a vicenda. Ma non vedo la mia opera come qualcosa che narra una grande storia né una “storia cinese”: piuttosto come un’allegoria, una predizione del futuro, un buco nero, una stella di speranza».
Lei parla di utopia e distopia.
«L’utopia che ispirava le motivazioni sta svanendo. Il buddismo tibetano fa riferimento al vuoto; forse un’utopia immaginaria è una sorta di “vuoto” in questo senso».
Che ruolo gioca la realtà virtuale in questo processo?
«L’insoddisfazione per la realtà richiede nuove realtà. Mi piacciono i confini sfocati: fisici, emotivi o spazio-temporali. Il mondo reale è spesso in bianco e nero, troppo rigido e inaffidabile. Con la realtà virtuale gli artisti possono creare una cornice multidimensionale».
Nonostante sia proiettato nel futuro, il suo film “Nova” ha il passo di un classico pieno di nostalgia.
«In Nova ho rielaborato la fantascienza russa di cento anni fa.
L’ex Unione Sovietica era radicale nella sua arte, avanguardista, parlava di cosmologia biologica e cose simili.
Il mondo è in una nuova era di radicalizzazione tecnologica, ma in un senso diverso dal passato, perché oggi è guidata da affari e capitali. La nostalgia è quindi una forma per comprendere il presente, una retrospettiva sulla realtà che non può essere razionalizzata, soprattutto quando la realtà è in qualche modo congelata e il futuro non è arrivato».
Parliamo di “Isle of Instability”, in cui mette in scena i suoi figli durante il lockdown.
«Sebbene alcuni dei miei lavori evochino l’apocalisse, gli zombie, la distopia, dimostrano anche fiducia nell’affrontare le difficoltà reali. Come madre, durante la pandemia dovevo prendermi cura della mia famiglia, mostrare forza e cercare di evitare che diventassero ansiosi. Allo stesso tempo, avvertivo i dilemmi del momento e volevo a rispondervi come artista.
Lavorando con i miei figli a Isle of Instability , sono stata sia una madre che un’artista.
Abbiamo superato le nostre paure attraverso una sorta di giocoso gioco di ruolo».
Cosa può fare l’arte in questi tempi incerti e paurosi?
«Non ci si deve aspettare che l’arte sia strumentale. Ma a me ha insegnato la saggezza di trattare con il mondo».