Avvenire, 20 marzo 2022
Intervista a Marina Confalone
Al cinema la vediamo poco, troppo poco. Eppure ogni volta che arriva sul grande schermo lascia un segno profondo nei panni di personaggi che non si dimenticano. È successo più recentemente con la feroce zi’ Marì ne Il vizio della speranza, dove interpreta una trafficante di esseri umani tossicomane e senza scrupoli, un personaggio che le ha fatto vincere numerosissimi premi, ed è successo nei panni di Bettina, la cameriera di casa Primic ne Il silenzio grande. Premio all’Eccellenza all’XI edizione del Festival di Spello, Marina Confalone, schiva, dolcissima e schietta, ripercorre la sua lunga carriera, da Eduardo De Filippo ad Alessandro Gassmann, passando per Federico Fellini e Mario Monicel-li, e racconta dei suoi tanti no a ruoli che hanno poi fatto la fortuna di altre attrici.
Ogni volta che lei arriva al cinema fioccano premi. Perché non la vediamo più spesso?
Ho rinunciato a moltissime proposte e forse ho sbagliato. Ho sempre agito d’istinto, mai in modo strategico per la mia carriera, scegliendo solo quei personaggi che mi consentivano una esperienza interessante. Ho detto no al ruolo di Cettina in Un medico in famiglia, ad esempio. Non mi piaceva la qualità della serie. E a Benvenuti al Sud. Non mi pento dei miei no, soprattutto oggi che avrei bisogno di più spazio e attenzione in un film. Non sono una persona facile, lo ammetto, sono molto esigente con me stessa e con gli altri, non facilmente collocabile. Non amo i personaggi che mi vengono offerti, quelli ad esempio legati alla famiglia. Sono più interessata a chi vive una profonda solitudine, che attraversa in vari modi la follia, fuori dagli schemi, in direzione del surreale, come Pulcinella che ho più volte interpretato, e la scimmia di Kafka in Il signor Rotpeter di Antonietta De Lillo. Mi piace la fisicità dei ruoli, l’azione e le maschere che mi proteggono e fanno emergere altre cose di me. Non voglio vedere me stessa, sono contenta solo quando riesco a scomparire dietro il trucco.
Zi’ Marì e Bettina sono due personaggi agli antipodi. Cosa le piace di loro?
Zi’ Marì è un personaggio spregevole, ho fatto molta fatica a vestire i suoi panni, ma il suo fascino sta nella complessità di una donna che una disperata solitudine ha reso così crudele. Quello con Bettina è stato un incontro felicissimo invece, è un personaggio bellissimo, semplice e generoso, buono e sincero, che nasce dalla penna di Maurizio De Giovanni e con la quale ho un legame molto forte.
In Mina Settembre però interpreta una madre, uno di quei ruoli che non le piace fare.
E infatti voglio andarmene, ho chiesto di far morire il mio personaggio, ma non me lo lasceranno fare. Perderla sarà un dispiacere per i fan della serie, ma non per me. Dovevo essere molto cinica, ma ho cercato di regalare un po’ di follia a questa donna, qualcosa di inedito che vorrei offrire a tutti i personaggi, per renderli più sfaccettati.
C’è ancora molta pigrizia nello scrivere ruoli, soprattutto femminili...
Credo di essere fatta apposta per perdere tutte le occasioni. Ho una sincerità che mi fa il vuoto intorno, ma posso permettermi di rinunciare a tanti lavori perché non vivo di questo. La verità è che non voglio fare film per il pubblico del sabato sera, non amo le commedie che non siano venate di dramma e amarezza, non mi interessa la vita sociale, non frequento salotti, non ho amici tra le persone di spettacolo. Ma ho una grande stima per Alessandro Gassmann e Roberto Andò che ha chiesto a De Giovanni di scrivere un ruolo per me a teatro.
Lei che ama scrivere e che a teatro ha messo in scena da regista dei suoi testi, potrebbe scriversi un ruolo su misura da proporre a un regista.
È quello che sto facendo proprio adesso, nella speranza che qualcuno dimostri interesse. Sarà una donna talmente ingenua da passarne di tutti i colori. Le persone fragili come lei, con la loro istintività, sono più vicine a Dio e al Creato. Sarà una storia divertente con alcuni elementi drammatici.
Era giovanissima quanto ha cominciato a lavorare con De Filippo.
A lui devo tutto. A differenza di Carlo Cecchi, altro mio grande maestro, Eduardo faceva teatro senza teorizzare. Lui era il teatro. Aveva un brutto carattere, ma grande rigore e senso civico. Nutriva per il palcoscenico un amore totale che esigeva rispetto e odiava le improvvisazioni, ma quando ne Il coraggio di un pompiere napoletano mi inventai in scena un modo buffo di camminare, lui mi venne dietro. L’anno dopo mi offrì il ruolo da protagonista in Le voci di dentro.
Poi ci sono stati Fellini, Monicelli, Bertolucci...
Fellini aveva una specie di passione per me, che all’epoca avevo 20 anni, pensava fossi bellissima e la sua ammirazione un po’ mi spaventava. Mi fece fare un piccolo ruolo ne La città delle donne. Con Monicelli, cinico ma adorabile, ho girato tre film, Il marchese del grillo, Panni sporchi e Parenti serpenti, che fu una vera festa. Bertolucci invece era il regista che mi somigliava di più per il suo essere contro il cinema borghese e per la sua predilezione per l’insolito.