Il Messaggero, 20 marzo 2022
L’uccisione di Marco Biagi, il 19 marzo 2002
Vent’anni fa, il 19 marzo del 2002, un commando delle nuove Brigate Rosse, uccise Marco Biagi, emerito accademico, giuslavorista e consulente di vari ministeri. I terroristi attesero il docente sotto la porta di casa, gli spararono 6 colpi alla testa, e si dileguarono. L’anno dopo, durante un controllo in treno, la polizia individuò due degli assassini, Marco Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Il primo reagì sparando, uccidendo il sovrintendente Emanuele Petri e cadendo a sua volta per la reazione dell’altro poliziotto. La seconda fu arrestata e successivamente condannata all’ergastolo. Fu l’ultimo atto di una tragedia iniziata quasi trent’anni prima. E fu anche il più assurdo e insensato, ammesso che nel terrorismo possa esservi qualcosa di ragionevole. I brigatisti infatti avevano da tempo perso la guerra, e non avevano alcuna possibilità di ricominciarla. Quello sparuto gruppo di assassini si comportò come le SS in ritirata nell’aprile del 45, quando per pura crudeltà fecero stragi tra inermi civili.
GLI ESORDILe Br avevano esordito agli inizi degli anni 70, prima con volantinaggi, poi con sequestri, e infine con attentati contro i servi dello Stato: magistrati, poliziotti, politici, giornalisti, avvocati, dirigenti industriali. Il culmine fu raggiunto, nel marzo del 78 con la strage di Via Fani, l’eliminazione della scorta dell’on. Moro, e il sequestro di quest’ultimo. I terroristi avevano chiesto uno scambio di prigionieri, e lo Stato, dopo qualche esitazione, aveva rifiutato.
LA REAZIONENe seguì l’omicidio dello statista democristiano e una furiosa reazione delle Br con una catena di attentati che mascherava in realtà la loro crisi politica: non avendo più alcun interlocutore, il loro progetto rivoluzionario, già utopistico per ogni persona sensata, era ora manifestatamente irrealizzabile. In questo clima di impotenza esasperata e disperata, i terroristi mirarono alla sinistra sindacale, considerata complice dello Stato delle multinazionali, e quindi non solo una nemica ma, peggio, un traditrice.
L’obiettivo fu Guido Rossa, dirigente genovese della Cgil, ucciso da un gruppo di quattro uomini. Questo omicidio rafforzò l’impegno del Pci nella lotta contro le Br e le altre formazioni – Prima Linea, Gap, Pac ecc. – che nel frattempo avevano debuttato con imprese altrettanto cruente. L’atteggiamento inflessibile del più forte e organizzato partito di sinistra contribuì in modo determinante alla crisi politica dei brigatisti, cui seguì, con logica inevitabile, quella militare. Il primo a capirlo fu uno dei fondatori del movimento: Patrizio Peci che, sotto l’abile gestione del Generale Dalla Chiesa, iniziò a collaborare nel massimo segreto, e come prova di affidabilità indicò il luogo in cui si riuniva la colonna genovese che aveva assassinato Rossa. I carabinieri fecero irruzione e i quattro rivoluzionari, che si difesero armi alla mano, furono uccisi. Seguirono altri attentati e altri arresti, in un crescendo di violenze sintomatiche del fallimento politico del progetto delle Br, del loro isolamento totale e della loro rabbia impotente.
IL RAPIMENTOAlcuni suoi componenti cominciarono, nella massima riservatezza e cautela, a fornire informazioni. Quando nel dicembre del 1981, la colonna veneta rapì a Verona il generale Dozier, alcune di queste collaborazioni consentirono, poche settimane più tardi, di individuare la prigione dell’ostaggio, e di liberarlo con una brillante operazione fra il tripudio del Paese e gli elogi del presidente Reagan. Gran parte dei terroristi, vistisi sconfitti non solo nel progetto politico ma anche sul campo operativo, si arresero, e nel giro di due mesi l’intera impalcatura crollò.
Seguirono importanti processi: tutti i responsabili, a cominciare dagli assassini di Aldo Moro, furono individuati. Alcuni riuscirono a fuggire, trovando riparo in regimi dittatoriali e, purtroppo, anche nella vicina e democraticissima Francia. Ma la gran parte fu giudicata e condannata, con corposi sconti di pena per i collaboratori e i dissociati. Non vi furono leggi speciali: fu seguita la procedura ordinaria con le garanzie costituzionali che hanno onorato quella nostra pagina giudiziaria. Dai numerosi dibattimenti non emersero novità particolari: le Br avevano agito in modo autonomo, senza etero direzioni o coinvolgimenti di misteriosi servizi segreti. Una soluzione che sembrava troppo semplice a quella parte dell’opinione pubblica assuefatta alla dietrologia, e che originò le ipotesi più strampalate sui grandi vecchi mandanti delle stragi. Questa forsennata ricerca di un colpevole insospettabile in realtà mascherava l’incapacità di riconoscere ai terroristi le qualità che allo Stato erano mancate: la lucidità dei propositi, la cura della progettazione, e l’abilità esecutiva. La spettacolare impresa di via Fani dimostrava che l’efficienza militare delle Br era infinitamente maggiore rispetto alla nostra impreparazione. Ma alla fine lo Stato aveva vinto.
L’IDEOLOGIAIl brigatismo era stato il frutto di un’ideologia rivoluzionaria, sorta sul mito della Resistenza tradita e alimentata da una visione apocalittica del cosiddetto sfruttamento del proletariato. Fu gestito da uomini e donne animate da un lucido fanatismo, disposti a uccidere e a morire per una causa in cui credevano con una dedizione totale. Fu un errore considerarlo prima un fascismo mascherato, e poi un prodotto di sanguinarie belve umane, definizione enfatica e riduttiva che non considerava la complessità dell’infatuazione ideologica e dell’adesione acritica a un vangelo rivoluzionario. I pochi che non si rassegnarono alla sconfitta ripresero, alcuni anni più tardi, queste iniziative disperate. Nel 1988 fu ucciso Roberto Ruffilli, e undici anni dopo Massimo D’Antona. Erano esponenti di quella sinistra riformista e moderata che tendeva a conciliare la libera iniziativa imprenditoriale con le aspettative, crescenti e legittime, dei lavoratori. In effetti le Br e Prima Linea, che in un primo tempo avevano colpito gli elementi della magistratura e della politica considerati più conservatori, da tempo avevano cambiato strategia, mirando soprattutto a quelle personalità politiche come Moro, quelle culturali come Vittorio Bachelet, e quelle giudiziarie come Girolamo Minervini, Guido Galli ed Emilio Alessandrini, che rappresentavano una sorta di cerniera ideale tra il centro e la sinistra.
IL FALLIMENTOTra i giuslavoristi Marco Biagi era stato tra i primi a elaborare e soprattutto attuare questa composizione di interessi. Sarebbe stato l’ultimo a subire la reazione dei più irriducibili ed esaltati comunisti rivoluzionai. Come tutte le rivoluzioni, anche questa alla fine fallì, dimostrando la saggia definizione di Rivarol, che esse sono le prefazioni sanguinarie di libri mai scritti.