Il Messaggero, 20 marzo 2022
Biografia di Giorgio Pasotti raccontata da lui stesso
Come attore fa quasi sempre centro – fino a tre settimane fa, con Lea. Un nuovo giorno, serie medical di Rai1, ha fatto il pieno d’ascolti – come regista la critica non lo prende tanto sul serio («Mi massacrano», dice lui senza nascondersi o far finta di niente), ma ha già fatto due film e in estate ne girerà un terzo. E come uomo dice che, a conti fatti, con le donne ha quasi sempre sofferto. Tanto. Con il bergamasco Giorgio Pasotti, 48 anni, partiamo proprio da lì. Senza credergli, ovviamente.
Di donne importanti quante ne ha avute?
«Poche. Due-tre. Una è la mia attuale compagna, Claudia (Tosoni, anche lei attrice, 30 anni, ndr), che ha molta pazienza e caparbietà. Stare accanto a uno come me non è facile».
Perché?
«Sono ingombrante e lunatico, ma meno egocentrico come un tempo. Almeno spero».
Colpi bassi ne ha più presi o dati?
«Presi. È la verità. Per le donne sono stato davvero male, anche se poi qualche vendetta me la sono presa. Mettiamola così: quando i rapporti erano importanti le delusioni sono state altrettanto importanti».
Lei e Nicoletta Romanoff avete una figlia di 12 anni, Maria. Come se la cava come papà?
«È il ruolo più difficile della vita. Spero di non fare gravi errori, per lei mi auguro di non essere troppo famoso, realizzato o sportivo... Non deve sentirsi costretta a eguagliare me e fare ciò in cui non crede veramente».
La domanda più importante che le ha fatto finora?
«Sei felice, papà?».
E lei che cosa le ha risposto?
«Tutto sommato, sì».
Lei dal 92 al 95 ha studiato arti marziali e agopuntura a Pechino: come ci finì da quelle parti?
«Per caso. Da sportivo, finite le superiori, non sapevo che strada imboccare. Un giorno un amico di mio padre gli disse che c’era questa Università, lui mi chiese un parere, e io risposi subito che ero pronto a partire. Tempo un mese ed ero lì. Non sapevo una parola di cinese e parlavo malissimo inglese. Pensavo di stare un mese. Feci tutti i tre anni fino alla laurea. E feci anche quattro film: in accademia cercavano occidentali che sapessero combattere. Vinsi i provini senza rivali».
Rientrato in Italia quando fece il primo film?
«Nel 1997 grazie a Daniele Luchetti, che mi convinse a recitare nel suo Piccoli maestri, storia di un gruppo di studenti di Padova che mollarono tutto per fare la Resistenza. Andò in concorso a Venezia e i critici ci massacrarono così tanto che io e Stefano Accorsi, con me nel cast, scappammo. Ce ne andammo proprio via. Fu uno shock. Un trattamento simile l’ho ricevuto solo di recente come regista dei miei due film».
Perché?
«Perché c’è un pregiudizio nei confronti di chi non appartiene al cliché dell’attore impegnato. Io venivo dalle arti marziali, con il viso bellino e normale, un fisico particolare, e a dir la verità all’epoca non avevo neanche una preparazione adeguata. Poi dopo tanta esperienza, tanti successi, mettersi a fare anche il regista a qualcuno è sembrato troppo. Qualche soddisfazione me la sono tolta, però».
Quale?
«A Matteo Garrone è piaciuto Abbi fede del 2020 (storia di un prete, Pasotti, che gestisce una comunità montanara in cui cerca di aiutare uno psicopatico fascista, remake del film Le mele di Adamo del danese Anders Thomas Jensen, ndr). Comunque si possono anche prendere mazzate ma se si lavora tanto e bene i risultati arrivano. Sono di Bergamo e sono come un falegname caparbio che pialla oggi, pialla domani, alla fine la tavola la restituisce dritta e liscia».
In generale il bilancio com’è?
«Sono contento ma per me è stato tutto difficile, impegnativo e faticosissimo. C’è voluto coraggio».
A cosa allude?
«Dopo L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, nel 2000, la nostra generazione di attori esplose. Io però, subito dopo, decisi di fare nel 2002 Distretto di polizia in tv, cosa all’epoca vista come la morte. Io me ne fregai e feci la scoperta della vera popolarità con un prodotto di qualità visto da 13 milioni di spettatori. E quando Muccino fece Baciami ancora nel 2010 accettai di farmi mettere quella parrucca assurda».
Muccino al sottoscritto ha detto che quella parrucca è stata la più grande cazzata della sua carriera.
«Lo so bene. Però con quella specie di gatto morto in testa mi notò Paolo Sorrentino per farmi fare La grande bellezza nel 2013. Comunque se sono sopravvissuto a quell’attentato di Gabriele alla mia carriera... posso fare di tutto».
È vero che i colleghi di set, Accorsi, Favino, Santamaria etc, ci scherzavano su?
«I maledetti mi perculavano tutto il giorno (ride, ndr)».
L’equivoco maggiore sul suo conto?
«Di essere uno che fa scelte troppo disinvolte, che in passato non hanno fatto capire chi realmente fossi».
Chi è?
«Uno che vuole regalare emozioni. È la molla che mi fa fare tutto. Mi aiuta tanto saper scegliere. Leggo e so cosa devo fare».
Va bene tutto, ma la cosa più furba che ha fatto, magari per soldi, qual è?
«La pubblicità del Mulino Bianco dopo Antonio Banderas. C’ero cresciuto con quegli spot...».
Oggi che storie l’attraggono?
«Quelle con gli antieroi, i mascalzoni zozzi e maledetti. In estate, per esempio, girerò il mio terzo film da regista e parlerò delle logiche sempre più feroci nel mondo del lavoro. È tratto dal testo di un autore catalano, Jordi Galceran. Si intitola Il metodo».
Un nome da ricordare?
«Tanti, ma ne cito uno: Mario Monicelli. Adoravo la sua leggerezza. Era così colto e profondo che sapeva manovrarla. Una volta a una cena con tanta gente importante fa una pernacchia proprio mentre sto per sedermi. Lo guardo con gli occhi di fuori senza dire una parola. E lui: Tu e quelli della tua generazione siete bravi ma vi prendete troppo sul serio».
Aveva ragione?
Certo. Pensiamo troppo a noi stessi e ci facciamo mille problemi, forse perché dopo tanti giganti dovevamo e dobbiamo sempre dimostrare qualcosa. Così, però, abbiamo anche un po’ stufato».
Il più bravo di voi chi è?
«Kim Rossi Stuart».
L’errore più grande fatto finora?
«Aver firmato un contratto in esclusiva per due film con Cecchi Gori quando nel 1998 avevo la possibilità di girare Radiofreccia di Ligabue. Poi quando nel 2011, per fare la miniserie sul pugile Tiberio Mitri, chiamai il direttore di Rai Fiction Fabrizio Del Noce per propormi».
E lui?
«Non mi prese, scritturò Luca Argentero. Fu umiliante, ma io ero perfetto per quel ruolo».
E poi?
«La Porsche. A 29 anni me ne comprai una. D’origine umile volevo togliermi lo sfizio, anche se non sono mai stato fissato con le auto. Vado a ritirarla e al terzo semaforo, riflesso in una vetrina, mi guardo e penso: ma che cazzo hai fatto, coglione... Sembravo un calciatore. Mi sono vergognato. L’ho venduta tre mesi dopo».