la Repubblica, 20 marzo 2022
La fine delle banche popolari
Il colpo di grazia lo hanno sparato, con voto elettronico, 2.610 soci della Banca popolare di Sondrio, il 29 dicembre 2021. Richiamati dalle feste per approvare lo statuto da Spa dopo 150 anni, oppure dal 1° gennaio l’istituto rischiava la licenza bancaria. Così è scomparso l’ultimo banchiere della porta accanto d’Italia, qui incarnato dal cav. rag. dott. Mario Alberto Pedranzini, leader dell’ultima “grande popolare” a conformarsi alla legge e divenire società per azioni, dopo sette anni di carte bollate e ricorsi, persi. La riforma Renzi «Dopo 150 anni di successi, può una banca essere costretta dall’Europa e dalla politica italiana a votare il male proprio e del proprio territorio?», ha twittato Corrado Sforza Fogliani, leader della Banca di Piacenza e di Assopopolari. A Sondrio dal 1871 non si è mai chiuso un anno in rosso, e sempre i soci hanno avuto dividendi: frugali, essendo prioritario il territorio, non massimizzare gli utili come nelle Spa. Si è così compiuta la riforma di Renzi, che con decreto “urgente” il 24 gennaio 2015 impose a 10 popolari con attivi di oltre 8 miliardi di trasformarsi in spa, rinunciando ai diritti speciali a partire dal voto capitario, per cui i dipendenti- soci presidiavano l’assemblea e le nomine. «La riforma Renzi ha sconvolto quel mondo, che in verità aveva già avviato un processo di eutanasia con alcune gestioni del tutto fuori logica o fuori mercato – racconta Ernesto Paolillo, capo di Banca popolare di Milano dal 1993 al 2004 –. Una distruzione che, mentre la grande industria italiana quasi scompariva, ha privato le Pmi di un loro storico sostegno. E ha impoverito i territori, specie nei comuni più piccoli». Fu uno dei colpi tipici del Grande rottamatore toscano al governo, al fine di modernizzare una nicchia creditizia cresciuta oltre i propri campanili e limiti, talora perdendo di vista la prudenza e il rispetto di regole e norme. Gli scandali e i dissesti di troppe popolari (Vicenza, Veneto Banca, Creval, Bari, Popolare dell’Etruria) che da anni scalavano le classifiche a colpi di credito facile e fusioni pilotate, avevano attirato gli strali di quasi 500 mila risparmiatori “traditi” e quindi del governo, contro una lobby che dopo mezzo secolo di armonia con i partiti di potere si pensava inaffondabile. Un peccato di hybris forse, pagato carissimo. Banchiere della porta accanto Quel che resta della grande armata popolare, che fino al 2015 prevaleva in molte regioni ricche del Nord e presidiava oltre un quinto di sportelli, depositi e impieghi bancari nazionali, è un soffio. Il banchiere della porta accanto, almeno nelle vesti stazzonate con cui s’era travestito da “banchiere nazionale”, è estinto. Le popolari rimaste – una ventina su 474 istituti, per lo più con grappoli di filiali malandate nel Sud – sono crollate nel 2020 a meno del 3% del totale, dopo che gli oggetti della riforma si sono decimati tra liquidazioni, spezzatini, fusioni. Erano loro gli araldi del “movimento popolare”, giunto a controllare prima della crisi 2008 un quarto del mercato italiano: e che ancora nel 2015 teneva le posizioni. Da allora, complice la riforma e più i guai contabili, 4.902 sportelli “popolari” sono scomparsi. Un calo dell’80%, che li ha ridotti a 1.244 nel Paese: solo il 5,3% dei 23.480 sportelli 2020. Su 10 gruppi oggetto della riforma quattro li ha incorporati Intesa Sanpaolo, sfruttando la sua forza operativa e di sistema per staccare sulle rivali. Tra il 2017 e il 2020 la banca leader in Italia (oggi ha il 22% del mercato) ha ricevuto 5 miliardi di dote statale per inglobare i due rami delle popolari venete in crisi, poi ha investito 4,1 miliardi per far sua Ubi, che poco prima aveva integrato l’Etruria ed era tra le popolari più appetibili. I francesi di Crédit Agricole hanno sborsato 850 milioni (con 350 milioni di abbuono fiscale) per Creval. Bari tre anni fa dopo tante peripezie è stata salvata con un miliardo statale (ma la cura sarà lunga: nel 2021 è ancora in rosso, caso quasi unico). Solo Banco Bpm e Bper, terze e quarte in Italia per attivi, hanno saputo ingrandirsi via fusioni, e rafforzare le gestioni conservando tratti che ricordano lo status passato. E oggi si contendono la creazione del “terzo polo bancario”, con attivi sui 200 miliardi e dietro a Intesa e Unicredit, cinque volte più grandi. Nell’atteso terzo polo potrebbe finire anche Sondrio, che con Bper ha accordi distributivi e un comune azionista perno: la Unipol delle coop emiliane. «La riforma Renzi ha avuto l’effetto collaterale di consolidare il settore, tra il rafforzamento di Intesa Sanpaolo e i tentativi di terzo polo di Banco Bpm e Bper – dice Lando Sileoni, capo di Fabi, il primo sindacato di settore –. Peraltro il nuovo piano strategico di Intesa, che stanzia 5 miliardi per la banca digitale, accelererà le esigenze di consolidamento tra le ex popolari: per restare competitive dovranno allinearsi al leader». Il credito non è calato, anzi Difficile capire se la scomparsa delle popolari abbia influito sul credito erogato in Italia. In questi sette anni la discesa dei tassi sottozero in Europa, seguita da ingenti misure di sostegno del governo per evitare che la pandemia frenasse i prestiti, hanno tenuto imprese e consumatori al riparo da possibili strette. Il settore bancario italiano, traballante nel 2015 anche per i citati scandali, oggi è senza dubbi più forte e solido, avendo frattanto smaltito tre quarti dei 350 miliardi di crediti deteriorati ammassati allora nei conti. I dati complessivi confermano: anche se la relazione annuale 2020 di Banca d’Italia attesta che il “credito popolare” è sceso del 70% tra 2016 e 2020, allorché pesava solo per il 3% del totale. Nel 2021, in cui anche Sondrio sarà una ex popolare, quel 3% si dimezzerà. Tuttavia, diversi indicatori recenti non ravvisano flessioni: sono solo cambiati i nomi dei creditori. E spesso i nuovi nomi sono le grandi spa bancarie, non le piccole Bcc, protagoniste a loro volta di una riforma per rafforzarne i presidi del credito cooperativo locale. Ma l’incidenza delle Bcc sui finanziamenti totali resta frazionale, similmente a quel che resta delle popolari. Meno attenzione alle comunità Tutto bene quindi? Non proprio. Dai famosi territori, (parola allora demonizzata se accostata alle banche) salgono testimonianze sugli rischi più politici che la fine delle popolari potrebbe produrre negli anni. La banca di campanile dialogava con le imprese ed era un ovvio interlocutore dei poteri locali per collaborazioni su infrastrutture, formazione, lavoro, nelle aree più sviluppate d’Italia. Una forma, nostrana e magari subottimale, di capitalismo degli stakeholder, come inteso da Alec Ross e Raghuram Rajan, per cui ogni azienda fortifica la comunità. Perfino quei banchieri popolari che hanno rovinato i propri soci avevano cura per le zone d’origine, da cui traevano lustro sociale e le leve del potere. Lo prova il fatto che la loro reputazione, tra le varie comunità venete, pugliesi o altrove, non sia stata del tutto scalfita dai crac. Il popolo disperso delle popolari ricorda ancora la generosità dei fidi, le sponsorizzazioni culturali, le convenzioni ai dipendenti e simili. Oggi il sistema è più ispirato a concorrenza e mercato. E il credito “nuovo” ricalca più rigidi algoritmi che le sensibilità dei capistruttura: quando non discende da decisioni prese in alto. A Francoforte, dove da anni la Bce incentiva le banche a impiegare la moneta che stampa; o a Roma, dove il governo dal 2020 s’è addossato i costi di prima perdita su 260 miliardi di fidi bancari. Ma sembrano cose transitorie, rispetto al definitivo cambio di ottica avvenuto quando ai «banchieri della porta accanto» sono subentrati manager che giocano nella Champions League bancaria, dove i soci forti sono i grandi fondi globali, e tocca mediare tra istanze locali e tendenze mondo. I rischi di sistema per le filiere La storia di Ubi, ex popolare di Bergamo e Brescia, è emblematica. La banca, nel dialogo con il florido tessuto economico, nell’ultimo decennio è stata coprotagonista nello sviluppo di Orio al Serio, diventato terzo scalo in Italia per passeggeri sfidando molte previsioni. Anche i ruoli di Ubi come finanziatore, promotore, immobiliarista per l’Università di Bergamo hanno contribuito a farne un polo nazionale da 22 mila studenti. «Malgrado diversi banchieri non siano stati all’altezza, vivere in un territorio, osservarne problemi e istanze, conoscere e frequentare chi dirige amministrazioni e imprese, genera relazioni e saperi che aiutano a prendere le decisioni più giuste a lungo termine – dice Andrea Moltrasio, imprenditore delle vernici, presidente di Ubi fino al 2019, già vicepresidente di Confindustria -. Non sono sicuro che banche come Intesa, Unicredit o Agricole possano o vogliano sviluppare sensibilità del genere. Questa discrasia, peraltro poco capita dalla vigilanza quando sostenne la riforma, può creare una prospettica debolezza all’economia italiana, che si regge non sulle grandi imprese ma su comunità inclusive, filiere, distretti». I cambiamenti climatici e tecnologici, tra l’altro, impongono la riconversione brutale di interi settori. Come la meccanica, nicchia-pilastro che dal Bergamasco fornisce la Germania. «Quando il motore termico non sarà più prodotto, il che mi pare presto, chi aiuterà a rifondare tante filiere di componenti, fonderia, meccanica di precisione? La storia insegna che i sussidi dall’alto non bastano se mancano agenti di trasformazione sul territorio». Solo in futuro si capirà quanta parte del bambino è finita con l’acqua sporca, per la frenesia di una riforma nata dagli scandali e guidata dall’impeto politico, che ha cercato un giusto fine strapazzando origini e natura del settore bancario e di tanti clienti.