Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 19 Sabato calendario

Pastorale americana

Brani tratti da Philip Roth Pastorale americana Einaudi, pag. 508, € 3,99

L’eterna contraddizione degli ebrei – che vogliono integrarsi e vogliono star fuori, che dicono di essere diversi e dicono di non essere diversi

Nessuno attraversa la vita senza restare segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità; se non, certe volte, una quota maggiore.

Vincent è uno di quei ristoranti italiani vecchiotti annidati nelle strade del West Side tra il Madison Square Garden e il Plaza, ristorantini larghi tre tavoli e lunghi quattro lampadari, con arredamenti e menu che non sono quasi cambiati da prima della scoperta della rucola. Il televisore vicino al piccolo bar trasmetteva una partita di baseball, e ogni tanto un cliente si alzava, andava a dare un’occhiata, chiedeva al barista il punteggio, come stava giocando Mattingly, e tornava a sedersi davanti al piatto. Le sedie erano coperte di una plastica color turchese elettrico, le piastrelle del pavimento erano un salmone macchiettato, una parete era a specchio, i lampadari di ottone finto e, come ornamento, collocato in un angolo come un Giacometti, c’era un macinapepe rosso vivo alto un metro e mezzo (dono a Vincent, disse lo Svedese, della sua città natale in Italia), controbilanciato, nell’angolo opposto, da una damigiana di Barolo piazzata su un piedistallo come una statua. Un tavolo carico di vasetti della salsa marinara di Vincent era proprio davanti alla coppa delle mentine gratuite del dopocena accanto al registratore di cassa della signora Vincent; sul carrello dei dolci c’erano la millefoglie, il tiramisú, la torta a strati, la torta di mele e le fragole zuccherate; e dietro il nostro tavolo, sul muro, le foto con autografo («A Vincent e Anne, con amicizia») di Sammy Davis jr, Joe Namath, Liza Minnelli, Kaye Ballard, Gene Kelly, Jack Carter, Phil Rizzuto e Johnny e Joanna Carson. Billy, il nostro cameriere, un uomo piccolo e tozzo con un naso da pugile, non dovette chiedere cosa voleva mangiare lo Svedese. Per piú di trent’anni lo Svedese aveva ordinato a Billy la specialità della casa, ziti alla Vincent, preceduti da un piatto di frutti di mare Posillipo. – I migliori ziti al forno di New York, – mi disse lo Svedese, ma io ordinai il mio piatto preferito all’antica, pollo alla cacciatora, «disossato», come propose Billy.

Al posto dell’anima, pensavo, ha l’affabilità: quest’uomo

capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.

«A cosa pensa se le chiedo d’immaginare il corpo di sua moglie?» «Penso che dovrei tagliarmi la gola»

Scrivere ti trasforma in una persona che sbaglia sempre.

La perversione che ti spinge a continuare è l’illusione che un giorno, forse, l’imbroccherai.

La semplicità non è mai cosí semplice.

non mangiava quasi nulla di ciò che le davano a casa, ma a scuola e quando era fuori da sola mangiava praticamente senza sosta, cheeseburger con patate fritte, pizza, sandwich con pancetta, lattuga, pomodoro e maionese, cipolle fritte, frappé alla vaniglia, bibite gassate col gelato, gelato con crema di cioccolato, e dolci di tutti i generi, sicché quasi dalla sera alla mattina diventò grande e grossa, una sedicenne grande e grossa che camminava a lunghi passi, sciatta, alta piú di un metro e ottanta, soprannominata dai compagni Ho Chi Levov.

Conversazione n. 1 su New York. – Cosa fai quando vai a New York? Chi vedi a New York? – Cosa faccio? Vado in giro per New York. Ecco quello che faccio. – Cosa fai, Merry? – Faccio quello che fanno tutti gli altri. Guardo le vetrine. Che altro dovrebbe fare, una ragazza? – Conosci gente che fa politica a New York? – Non capisco cosa stai dicendo. Tutto è politica. Lavarsi i denti è p-politica. – Hai dei contatti con quelli che sono contro la guerra nel Vietnam? Non sono queste le persone che vai a trovare? Sí o no? – Sí, ci sono delle p-p- peppersone. P-peppersone che hanno delle idee, alcune delle quali non credono nella guerra. Per la maggior p-p- p-parte non credono nella guerra. – Beh, anch’io non credo nella guerra. – Allora, che p-problema c’è? – Chi sono queste persone? Quanti anni hanno? Cosa fanno per vivere? Sono studenti? – P-perché lo vuoi sapere? – Perché mi piacerebbe sapere cosa fate. Tu passi il sabato da sola a New York. Non tutti i genitori concederebbero tanta libertà a una ragazza di sedici anni. – Vado da... C’è tanta gente, sai, e i cani e le strade... – Torni a casa con tutto questo materiale comunista. Torni a casa con tutti questi libri e opuscoli e riviste... – Sto cercando d’imparare. Mi hai detto tu che dovevo imparare, no? Non solo studiare, ma imparare. Co-co-coccomunista... – È comunista. È propaganda comunista, lo dice lí. – I co-co-coccomunisti hanno idee che non riguardano solo il c-comunismo. – Per esempio? – Sulla p- povertà. Sulla guerra. Sull’ingiustizia. Hanno idee di tutti i generi. P-pepperché sei ebreo, non significa che tu debba avere idee solo sul giudaismo. Beh, per il co-coccomunismo è lo stesso. Conversazione n. 12 su New York. – Dove mangi, Merry, a New York? – Non da Vincent, grazie a Dio. – Dove, allora? – Dove mangiano tutti gli altri. Ristoranti. P-pizzerie. A casa della gente. – Chi è questa gente che abita in queste case? – Amici miei. – Dove li hai conosciuti? – Ne ho conosciuto qualcuno qui, ne ho conosciuto qualcuno in città... – Qui? Dove? – A scuola. Sh-sh-sh-sherry, per esempio. – Non ricordo di averla mai incontrata. – Sh-sh-sh-sherry è quella che suonava il violino nelle recite scolastiche. E va a New York p-pepperché prende lezioni di musica. – Si occupa di politica anche lei? – Papà, tutto è p-politica. Come può non occuparsi di p-politica se ha un p-popopo’ di cervello? – Merry, non voglio che tu ti metta nei pasticci. Tu sei arrabbiata per la guerra. Un mucchio di gente è arrabbiata per la guerra. Ma ci sono delle persone che sono arrabbiate per la guerra e non hanno limiti. Sai cosa vuol dire limite? – Limite. Non p-pensi ad altro. Non arrivare agli estremi. Beh, a volte ci devi arrivare agli estremi, cazzo. Cosa credi che sia, la guerra? La guerra è un estremo. Non è come la vita che facciamo qui nella p-piccola Rimrock. Qui non c’è niente di estremo. – Non ti piace piú stare qui? Preferiresti vivere a New York? Ti piacerebbe? – Ce-ce-cecerto. – E se quando hai finito il liceo tu facessi l’università a New York? Ti piacerebbe? – Non so se voglio fare l’università. Guarda come sono amministrati quei college. Guarda cosa fanno agli studenti che sono contro la guerra. Come p-posso desiderare di andare all’università? Istruzione superiore. È quella che io chiamo istruzione inferiore. Forse andrò all’università, forse no. Adesso non mi va di fare p-progetti. Conversazione n. 18 su New York, dopo che Merry, un sabato sera, non torna a casa. – Non devi farlo mai piú. Non devi fermarti a dormire da gente che non conosciamo. Chi sono queste persone? – Mai dire mai. – Chi sono le persone dalle quali hai passato la notte? – Sono amici di Sh-sherry. Della scuola di musica. – Non ti credo. – P-perché? Non credi che io p-popossa avere degli amici? Che possa riuscire simpatica alla gente? Non ci credi? Che p-popossano ospitarmi per la notte? Non ci credi? A cosa c-c-c-c-c-credi, allora? – Tu hai sedici anni. Devi tornare a casa. Non puoi passare la notte a New York. – P-piantala di ricordarmi quanti anni ho. Tutti abbiamo i nostri anni. – Ieri, quando sei uscita, ti aspettavamo per le sei. Alle sette di sera hai telefonato per dire che ti fermavi. Ti abbiamo detto di no. Hai insistito. Hai detto che avevi un posto per dormire. Perciò ti ho dato il permesso. – Mi hai dato il p-permesso. Sicuro. – Ma non devi farlo piú. Se lo rifarai, non ti daremo piú il permesso di andare da sola a New York. – Chi lo dice? – Tuo padre. – Vedremo. – Voglio fare un patto con te. – Che p-patto, padre? – Se torni a New York e scopri che si sta facendo tardi e devi fermarti in qualche posto, vai dagli Umanoff. – Dagli Umanoff? – Tu sei simpatica a loro, loro sono simpatici a te, ti conoscono da quando sei nata. Hanno un bellissimo appartamento. – Beh, anche le p-persone dalle quali sono stata io hanno un bellissimo appartamento. – Chi sono? – Te l’ho detto, sono amici di Sh-sherry. – Chi sono? – Bill e Melissa. – E chi sono Bill e Melissa? – Sono p-p-peppersone. Come tutte le altre. – Cosa fanno per vivere? Quanti anni hanno? – Melissa ha ventidue anni. E Bill diciannove. – Sono studenti? – Erano studenti. Adesso organizzano la gente p- per migliorare le condizioni dei vietnamiti. – Dove abitano? – Che vuoi fare, venirmi a p-prendere? – Vorrei sapere dove abitano. Ci sono quartieri di ogni genere, a New York. Alcuni sono buoni, altri no. – Abitano in un quartiere assolutamente p-perbene e in un palazzo assolutamente p-p-p-pepperbene. – Dove? – Stanno a Morningside Heights. – Sono studenti della Columbia? – Lo erano. – Quante persone vivono in questo appartamento? – Non vedo pe-perché devo rispondere a tutte queste domande. – Perché sei mia figlia e hai sedici anni. – Cosí, p-per il resto dei miei giorni, p-poiché sono tua figlia... – No, quando avrai diciotto anni e avrai preso la licenza liceale, potrai fare tutto quello che vorrai. – Dunque, quella di cui stiamo p-parlando è una differenza di due anni. – Precisamente. – E cosa deve succedere, di grosso, in du-due anni? – Che sarai una persona indipendente e in grado di mantenersi. – Potrei mantenermi anche adesso, se vo- vo-vo-vo-volessi. – Non voglio che ti fermi a dormire da Bill e Melissa. – P-p-pepperché? – Sono io che devo occuparmi di te. E io voglio che ti fermi dagli Umanoff. Se sei d’accordo, puoi andare a New York e fermarti là. Altrimenti non ti darò il permesso di andarci. A te la scelta. – Se ci vado, è per stare con la gente con la quale voglio stare. – Allora non ci vai. – Vedremo. – Non c’è nessun «vedremo». Non ci vai, e il discorso finisce qui. – Vorrei vedere come farai a impedirmelo. – Pensaci. Se non accetti di dormire dagli Umanoff, non puoi andare a New York. – E la guerra?... – Io mi sento responsabile di te e non della guerra. – Oh, lo so che non ti senti responsabile della guerra: p-per questo devo andare a New York. P-p-pepperché là la gente si sente responsabile. Si sente responsabile quando l’America fa sa-saltare in aria i villaggi vietnamiti. Si sente responsabile quando l’America fa a p-pezzi i b-bambini p-p-pipipiccoli. Tu no, invece, e la mamma nemmeno. Non te ne importa abbastanza da lasciarti turbare un solo giorno della tua esistenza. A te non importa abbastanza per farti p-passare un’altra notte in qualche posto. Tu non stai sveglio la notte a p-pensarci su. In un modo o nell’altro, papà, te ne importa po-po-poco. Conversazioni n. 24, 25 e 26 su New York. – Basta con queste conversazioni, papà. Basta! Mi rifiuto! Chi è che p-parla cosí con i suoi genitori? – Se sei minorenne e stai fuori tutto il giorno e la sera non torni a casa, devi parlare per forza con i tuoi genitori. – Mm-mma tu mi fai uscire di te-te-te-testa, con quell’aria da genitore ragionevole, che si sforza di essere comprensivo! Io non voglio essere compresa: voglio essere li-li-li-libera!– Preferiresti che fossi un genitore irragionevole che non fa nessuno sforzo per comprenderti? – Sí! Credo p-proprio di sí! Perché cazzo non ci p-p-provi, per cambiare, cosí vedo che differenza fa? Conversazione n. 29 su New York. – No, Merry, non puoi sconvolgere la nostra vita familiare finché non sarai maggiorenne. Allora potrai fare tutto quello che vorrai. Ma finché avrai meno di diciotto anni... – Non riesci a p-pensare ad altro, non riesci a p- parlare d’altro, non riesci a curarti d’altro che del b-bebbenessere di questa famigliola del ca-cacazzo!– Non è la stessa cosa alla quale pensi tu? Non è questo che ti fa arrabbiare? – N-n-no! Mm-mmai!– Sí, Merry. Tu sei arrabbiata per le famiglie nel Vietnam. Sei arrabbiata perché vengono annientate. Anche quelle sono famiglie. Sono famiglie proprio come la nostra che vorrebbero avere il diritto di vivere come la nostra. Non è questo che desideri per loro? Che Bill e Melissa vogliono per loro? Che possano fare una vita sicura e pacifica come la nostra? – Dover vivere da p-privilegiati in questo p-posto abbandonato da Dio? No, non credo sia quello che B-bibibill e Melissa vogliono per loro. Non è quello che io voglio per loro. – No? Pensaci bene. Francamente, io credo che fare questa vita da privilegiati in questo posto abbandonato da Dio li renderebbe piuttosto felici. – Quelli vogliono solo andare a letto, la sera, nella loro p-papatria, facendo la loro vita, e senza p-pensare che saranno b-b-bombardati e fatti a p-p-p-p-pepepezzi nel sonno. B-b-bombardati e fatti a p-p-p-pepezzi per amore dei privilegiati del New Jersey, delle sanguisughe che fanno la loro p-p-piccola vita p- pacifica, sicura, avida e insensata! Conversazione n. 30 su New York, quando Merry torna a casa dopo avere passato la notte dagli Umanoff. – Oh, come sono p-progressisti, B-b-b-babarry e Marcia. Con la loro comoda vita b-b-borghese. – Sono professori, gente seria, accademici contro la guerra. C’era qualcuno da loro? – Oh, un p-professore inglese pacifista, qualche p-professore di sociologia pacifista. Almeno, lui è pacifista con tutta la famiglia. Marciano tutu-tutu- tutututti insieme. È quella che io chiamo una famiglia. Mica come queste vacche del ca-ca-cacazzo. – È andata bene, allora. – No. Io voglio stare con i miei amici. Non voglio andare dagli Umanoff alle otto. Tutto quello che succede, qualunque cosa sia, succede dopo le otto! Se devo stare con i tuoi amici dopo le otto di sera, tanto vale rimanere qui a Rimrock. Dopo le otto io voglio stare con i miei amici! – Nondimeno ha funzionato. Siamo arrivati a un compromesso. Tu non sei stata con i tuoi amici dopo le otto, ma hai potuto passare la giornata con loro, che è molto meglio che niente del tutto. Sono molto contento del nostro accordo. Dovresti esserlo anche tu. Ci vai anche sabato prossimo? – Non p-progetto queste cose con anni di anticipo. – Se ci vai sabato prossimo, devi telefonare agli Umanoff per informarli. Conversazione n. 34 su New York, dopo che Merry non si è presentata dagli Umanoff a passare la notte. – Okay, basta cosí. Avevi fatto un accordo e l’hai rotto. Sabato prossimo non uscirai da questa casa. – Sono agli arresti domiciliari? – A tempo indeterminato. – P-perché hai tanta paura? Cosa credi che faccia? Sto insieme ai miei amici. P-p-parliamo della guerra e di altre cose importanti. Non capisco p-perché vuoi sapere tante cose. Non mi fai tutte queste do-do- domande del cazzo ogni volta che vado giú allo spa-pa-pa-paccio di Hamlin. Cos’è che ti fa tanta paura? Sei un ammasso di p-papaura. Non puoi continuare a startene nascosto qui nei boschi. Smettila di attaccarmi le tue p-paure e di fare di me una fifona come te e la mamma. Non sapete occuparvi d’altro che di va-vacche. Alberi e va-vavacche. Beh, esistono altre cose oltre agli alberi e alle va-va- vavacche. Esiste la gente. Gente che soffre sul serio. P-perché non lo dici? Hai paura che voglia scopare? È di questo che hai p-paura? Non sono cosí idiota da farmi mettere incinta. Cos’ho fatto d’irresponsabile in vita mia? – Hai rotto l’accordo. Basta cosí. – Questa non è una società. Questi non sono affa-affa-affa-affari, p-papà. Arresti domiciliari. Ogni giorno in questa casa è come essere agli arresti domiciliari. – Non sei molto simpatica quando ti comporti cosí. – P-piantala, papà. Anche tu non mi sei simpatico. Non lo sei maa-maa-mammai stato. Conversazione n. 44 su New York. Il sabato seguente. – Non ti accompagno al treno. Tu non esci da questa casa. – Cosa vuoi fare? Chi-chi-chiudermi dentro? Come farai a fermarmi? Vuoi legarmi sul seggiolone? È cosí che tratti tua figlia? Non p-p-posso credere che mio padre minacci di usare la forza con me. – Non minaccio di usare la forza con te. – Allora come farai a tenermi in casa? Io non sono una delle stupide va-va-vavacche della mamma! Non vivrò qui per sempre, Mister Pa-pappacifico, Mister Calmo e Sicuro di sé. Cos’è che ti fa tanta paura? Perché hai tanta p-paura della gente? Non hai mai sentito dire che New York è uno dei grandi centri culturali della terra? La gente arriva da tutto il mondo per vedere New York. Tu hai sempre voluto che io facessi esperienze nuove. Perché non posso fare esperienze a New York? Meglio di questo b-bubbuco. Cos’è che ti fa tanto arrabbiare? Che io p-possa avere un’idea che mi sono fatta con la mia testa? Un’idea che non hai avuto p-prima tu? Una cosa che non sia uno dei tuoi studiatissimi p-progetti per la famiglia e per come dovrebbero andare le cose? Non faccio altro che p-prendere, cazzo, uno dei treni che vanno in città. Milioni di uomini e di donne lo fanno tutti i giorni p-per andare a lavorare. Frequentare le persone sbagliate. Dio non voglia che io possa avere un altro p-punto di vista. Tu hai sposato un’irlandese, una cattolica. Cosa pensavano, i tuoi, del fatto che frequentavi le p-persone sbagliate? Lei ha sposato un eb-be- be-bebbreo. Cosa pensavano, i suoi, del fatto che frequentava le p-persone sbagliate? Che posso fare di p- peggio, io? Forse andare in giro con qualcuno pettinato all’Angela Davis: è di questo che hai p-paura? Non credo, papà. Perché non ti p-preoccupi di cose piú importanti, come la guerra, invece d’indagare se tua figlia, con tutti i suoi p-privilegi, p-prende un treno da sola p-per la grande città? Conversazione n. 53 su New York. – Tu continui a non volermi dire che razza di orribile destino del cazzo mi aspetta se p-p-prendo un treno del cazzo per la città. Anche a New York ci sono tetti e appartamenti. Anche loro hanno poporte e serrature. Le serrature non esistono solo a Old Rimrock, nel New Jersey. Ci avevi mai p-pensato, Seymour Levov che rima con «Love»? Tu credi che tutto quello che ti è estraneo sia male. Hai mai p-pensato che ci sono delle cose che ti sono estranee e che sono b-bubbuone? E che, essendo tua figlia, io p-possa avere l’istinto di andare con le persone giuste al momento giusto? Sei sempre tanto sicuro che io mi metta nei casini! Se tu avessi un p-po’ di fiducia in me, sapresti che p-posso frequentare le persone giuste. Non hai p-proprio nessuna stima di me. – Merry, sai benissimo di cosa sto parlando. Tu ti stai mescolando a certi politici radicali... – Radicali? Solo p-p-perché non sono d’accordo con te, sono radicali. – Sono persone che hanno posizioni politiche molto estreme... – Avere idee forti è l’unica cosa che produce qualche risultato, p-papà. – Ma tu hai solo sedici anni, e loro sono molto piú vecchi ed esperti di te. – Bene. Cosí forse imparerò qualcosa. «Estremo» significa b-b-bobbombardare un piccolo paese per un’idea sbagliata della libertà. Questo significa «estremo». Strap-pa-papare le gambe e le pa-palle ai bambini, questo significa «estremo», p-papà. Prendere un autobus o un treno per New York e p-passare la notte in un appartamento chiuso a chiave... Non vedo cosa ci sia di tanto estremo. Io credo che la gente dorma ogni notte in qualche p-poposto, se può. Dimmi, in questo, cosa c’è di tanto estremo. Tu credi che la guerra sia cattiva? Idea estrema, p-papà. Non è l’idea che è estrema, è il tentare di cambiare le cose. Tu credi che questo sia estremo? È un p-problema tuo. A qualcuno p-potrebbe interessare di piú salvare la vita degli altri che p-p-p-p-p-prendere una laurea alla Columbia: è estremo? No, è l’altra posizione che è estrema. – Stai parlando di Bill e Melissa? – Sí. Melissa ha smesso di studiare perché per lei ci sono cose p-p-piú importanti di una laurea. Fermare il massacro, p-per lei, è piú importante di un titolo di studio. Tu chiami questo estremo? No, io credo che estremo sia continuare a fare la solita vita quando succedono queste follie, quando la gente è sfruttata a destra, a sinistra e al centro, e tu p-puoi tirare avanti, metterti ogni giorno giacca e cravatta e andare a lavorare. Come se niente fosse. Questo è estremo. Estrema stupidità, ecco che cos’è. Conversazione n. 59 su New York. – Chi sono? – Andavano alla Columbia e hanno smesso di studiare. Ti ho già detto tutto. Abitano a Morningside Heights. – Non basta, Merry. C’è la droga, c’è la violenza, è una città pericolosa. Puoi metterti in un sacco di guai. Possono cercare di stuprarti. – P-perché non ho dato ascolto a papà? – Non è impossibile. – Le ragazze finiscono stuprate sia che ascoltino sia che non ascoltino quello che dice p-papà. Certe volte a stuprare sono proprio i p-papapà. Anche gli stupratori hanno figli. È questo a fare di loro dei p-papà. – Di’ a Bill e a Melissa di venire a passare un weekend qui con noi. – Oh, sarebbero proprio contenti di venire qui. – Senti, ti piacerebbe, in settembre, andare via di casa? In una scuola preparatoria per l’ultimo biennio? Forse sei stufa di vivere in famiglia e di stare qui con noi. – Sempre lí a fare p-progetti. Sempre a cercar d’indovinare la soluzione piú ragionevole. – Che altro dovrei fare? Non dovrei fare progetti? Sono un uomo. Sono un marito. Sono un padre. Dirigo un’azienda. – Dirigo un’aaa-aaa-azienda, dunque sono. – Ci sono scuole di tutti i generi. Scuole con persone interessanti di ogni genere, con ogni genere di libertà... Parla col tuo consigliere di facoltà. M’informerò anch’io. E, se sei stanca di stare con noi, potrai andare. Capisco che qui, per te, non c’è piú molto da fare. Pensiamo tutti, seriamente, all’ipotesi che tu vada a scuola altrove. Conversazione n. 67 su New York. – Potresti operare nel movimento contro la guerra anche qui a Morristown e a Old Rimrock. Potresti organizzare la gente contro la guerra qui, nella tua scuola... – P- papà, voglio fare a modo mio. – Ascoltami. Ascoltami, per piacere. La gente qui a Old Rimrock non è contro la guerra. Al contrario. Vuoi stare all’opposizione? Sta’ all’opposizione qui. – Qui non si p-può fare niente. Che cosa dovrei fare, marciare intorno allo spaccio di Hamlin? – Potresti organizzare il movimento anche qui. – I Rimrockiani Contro la Guerra? Sai che effetto. Il Liceo di Morristown Contro la Guerra? – Esatto. Portare la guerra in casa. Non è questo lo slogan? Fallo, dunque. Porta la guerra nel tuo paese. Vuoi essere impopolare? Lo sarai, te lo assicuro. – Non aspiro a essere impopolare. – Beh, lo sarai. Perché qui è una posizione impopolare. Se qui ti opporrai alla guerra con tutte le tue forze, credimi, farà effetto. Perché non parli della guerra alla gente di qui? Anche questo è un pezzo d’America, sai? – Un pe-pezzettino. – Questi sono americani, Merry. Tu puoi essere attiva contro la guerra anche qui in paese. Non occorre che tu vada a New York. – Già, p-posso essere contro la guerra nel soggiorno di casa nostra. – Puoi essere contro la guerra al Community Club. – Con i suoi venti soci? – Morristown è capoluogo di contea. Va’ a Morristown, il sabato. Anche là c’è gente che è contro la guerra. Il giudice Fontane è contro la guerra, lo sapevi? Il signor Avery è contro la guerra. Hanno firmato l’annuncio insieme a me. Il vecchio giudice è venuto con me a Washington. La gente di qui non è stata molto contenta di vedere il mio nome sotto quell’annuncio, sai? Ma è la mia posizione. Potresti organizzare una marcia a Morristown. Potresti cominciare a prepararla. – E il giornale scolastico del liceo di Morristown ne p- paparlerà. Cosí le nostre truppe lasceranno il Vietnam. – Mi risulta che al liceo di Morristown ti stai già esprimendo in modo esplicito contro la guerra. Perché ti prendi la briga di farlo, se credi che non serva? In realtà, sai benissimo che serve. In America, contano tutti i punti di vista sulla guerra. Parti da dove sei nata, Merry. Ecco il modo di porre fine alla guerra. – Le rivoluzioni non c-co-cominciano in campagna. – Non stiamo parlando di rivoluzione. – Tu non stai p-parlando di rivoluzione.

Lo Svedese chiese a Vicky di portargli una pelle in ufficio e la diede da palpare alla ragazza della Wharton. – Questa è stata piclata ma non conciata, – le disse. – È una pelle di agnellone. Non ha la lana, come la pecora domestica, ma il pelo. – Il pelo a cosa serve? – gli chiese lei. – Viene utilizzato? – Buona domanda. Il pelo viene usato per fare la moquette. Ad Amsterdam, nello stato di New York. A Bigelow. A Mohawk. Ma il vero valore è un sottoprodotto, e come togliere il pelo dalla pelle e via dicendo è tutta un’altra storia. Prima che arrivassero i prodotti sintetici il pelo serviva, per lo piú, a confezionare tappeti da pochi soldi. C’era una società che prelevava tutto il pelo dalle concerie per venderlo ai fabbricanti di tappeti, ma non è questo che lei vuole approfondire, vero? – disse, notando che la ragazza, prima che fossero entrati in argomento, aveva già riempito di appunti il primo foglio di un blocco nuovo. – Se la cosa le interessa, – soggiunse lo Svedese, un po’ commosso, e anche attratto, dalla sua diligenza, – perché, immagino, queste attività sono tutte collegate, potrei farla parlare con quelle persone. Credo che la famiglia lavori ancora da queste parti. È una nicchia che pochi conoscono. È interessante. È tutto interessante. Lei ha scelto un argomento interessante, signorina. – Credo di sí, – disse lei, con un largo sorriso. – Comunque, questa pelle, – gliel’aveva tolta di mano e la stava carezzando con un lato del pollice come si potrebbe carezzare il gatto per fargli fare le fusa, – questa pelle, nella terminologia industriale, si chiama «cabretta». Piccolo montone. Montoncino. Sono tutti animali che vivono solo a latitudini di venti o trenta gradi a nord e a sud dell’equatore, dove pascolano in uno stato semibrado: le famiglie di un villaggio africano ne possiedono quattro cinque ciascuna, le radunano in un gregge e le sguinzagliano nel bush. Quella che lei teneva in mano non è piú greggia. Noi le compriamo quando sono nello stadio detto del piclaggio. Il pelo è stato tolto e la pelle ha subito un trattamento preliminare che ne permette la conservazione fino al suo arrivo qui. Una volta si facevano arrivare gregge: grandi balle legate con una corda e cosí via, pelli fatte seccare all’aria aperta. Ho la nota di carico di una nave (è qui da qualche parte, posso trovargliela se vuole vederla), una copia della nota di carico di una nave del 1790 in cui si parla di pelli sbarcate a Boston, simili a quelle che noi abbiamo fatto arrivare qui fino all’anno scorso. E dagli stessi porti africani. Avrebbe potuto essere suo padre, a parlare. Per quanto ne sapeva, ogni parola di ogni frase che pronunciava l’aveva udita dalla bocca di suo padre prima di finire le elementari, e poi altre due o tremila volte durante gli anni in cui avevano mandato avanti la baracca insieme. Nelle famiglie dei guantai questi discorsi erano una tradizione che risaliva a secoli prima: il padre passava al figlio i segreti del mestiere, con tutta la storia e il folklore. Era vero per le concerie, dove conciare è come cucinare e le ricette si tramandano di padre in figlio, ed era vero per le fabbriche di guanti e per la sala taglio. I vecchi tagliatori italiani addestravano i loro figli e nessun altro, e quei figli prendevano lezioni dai loro padri come lui aveva preso lezioni dal suo. A partire da quando era un bambino di cinque anni e seguitando fino alla maturità, il padre era un’autorità incontrastata: riconoscere la sua autorità era tutt’uno col ricavare da lui la competenza che aveva fatto della Newark Maid la migliore fabbrica di guanti da donna del paese. Lo Svedese arrivò prontamente ad amare con tutto il cuore le stesse cose che amava suo padre e, in fabbrica, a pensarla piú o meno come lui. E a parlare come lui: se non a proposito di ogni argomento, almeno ogni volta che la conversazione finiva sul tema della pelletteria, di Newark o dei guanti. Non si era mai sentito cosí loquace da quando Merry era sparita. Fino a quel mattino non aveva desiderato altro che piangere o nascondersi; ma poiché c’erano Dawn da assistere, un’azienda da mandare avanti e i suoi genitori da sostenere, poiché tutti gli altri erano paralizzati dall’incredulità e completamente demoralizzati, nessuna delle due alternative aveva ancora eroso la facciata protettiva che lo Svedese offriva alla famiglia e presentava al mondo. Ma ora le parole lo stavano confortando, incoraggiando, le parole di suo padre liberate dalla presenza di questa ragazzina che annotava scrupolosamente. Era piccola, pensò, quasi come i compagni della terza elementare di Merry che un giorno, alla fine degli anni Cinquanta, avevano fatto sessanta chilometri in autobus dalla scuola di campagna perché il papà di Merry potesse mostrar loro in che modo faceva i guanti, mostrare soprattutto il posto preferito di Merry, il tavolo di controllo, dove, alla fine del processo produttivo, gli uomini davano la forma a ogni guanto e lo stiravano infilandolo con cura sulle mani d’ottone cromato scaldate dal vapore. Le mani erano pericolosamente calde e brillavano e sporgevano dal tavolo, tutte in fila, esili come mani passate dentro un mangano e amputate, bellissime mani amputate che galleggiavano nello spazio come le anime dei defunti. Da bambina, Merry era stata stregata dal loro enigma, e le chiamava «mani frittella». Merry da bambina che diceva alle compagne: – Bisogna guadagnare cinque dollari la dozzina –. Che era quello che dicevano sempre i guantai, e ciò che la bambina aveva udito da quando era venuta al mondo: cinque dollari la dozzina, questo era quanto si cercava di guadagnare, malgrado tutto. Merry che sussurrava alla maestra: – La gente che imbroglia sul cottimo è un problema. Mio papà ha dovuto licenziare un uomo. Rubava il tempo, – e lo Svedese che le diceva: – Amore, lascia fare a papà, okay? – Merry da bambina che era affascinata dall’idea di rubare il tempo. Merry che correva da un piano all’altro, con un’aria cosí fiera e padronale, ostentando la propria familiarità con tutti i dipendenti, ancora ignara della perdita di dignità inerente allo spietato sfruttamento del lavoratore da parte del padrone avido di profitto che possiede ingiustamente i mezzi di produzione. Non c’era da meravigliarsi se si sentiva cosí ciarliero, cosí desideroso di parlare. Per un attimo, tutto era tornato come allora: non c’era stata nessuna esplosione, nulla era andato in rovina. Come famiglia, i Levov seguivano ancora la rotta del razzo degli immigrati, la continua traiettoria verticale dal bisnonno sfruttato come uno schiavo al nonno animato dall’ambizione, al padre indipendente, abile e sicuro di sé, fino al membro della famiglia che puntava piú in alto di tutti, la figlia della quarta generazione per il quale l’America doveva essere il vero paradiso. Non c’era da meravigliarsi se non riusciva a stare zitto. Era impossibile tacere. Lo Svedese cedeva all’umano, universale desiderio di vivere ancora una volta nel passato; di immergersi ancora per qualche istante innocuo e illusorio nella grande e sana lotta del passato, quando la famiglia resisteva grazie a una verità che non si poneva assolutamente lo scopo di favorire la distruzione, ma piuttosto di eluderla e di sopravvivervi, sventando le sue misteriose scorrerie col creare l’utopia di un’esistenza razionale. La sentí chiedere: – Quante in una spedizione? – Quante pelli? Duemila dozzine. – Una balla quante pelli sono? Scopriva con piacere che le interessava ogni minimo dettaglio. Sí, parlando con questa diligente studentessa della Wharton, lo Svedese poté improvvisamente provare piacere in qualcosa, mentre non era riuscito ad amare, a sopportare, e persino a capire nessuna delle cose con le quali aveva fatto i conti in quattro mesi senza vita. Quando invece si era sentito morire ogni giorno di piú. – Oh, centoventi pelli, – rispose. Lei continuò a prendere appunti mentre domandava: – Arrivano direttamente al reparto spedizioni? – Arrivano alla conceria. La conceria è un appaltatore. Noi compriamo il materiale e lo diamo a loro, insieme al procedimento da usare, e loro ce lo convertono in pelle. Mio nonno e mio padre hanno lavorato in conceria proprio qui a Newark. Anch’io, per sei mesi, quando sono entrato nella ditta. È mai stata in una conceria? Non ancora. – Beh, se vuole scrivere qualcosa sulla pelle deve andare in una conceria. Posso organizzarle una visita, se vuole. Sono posti primitivi. La tecnologia ha migliorato le cose, ma quello che vedrà non è tanto diverso da quello che avrebbe visto centinaia di anni fa. Un lavoro orribile. Dicono che sia l’industria piú antica di cui si siano trovate le vestigia dappertutto. Da qualche parte sono saltati fuori i resti di una conceria che risalgono a seimila anni fa: in Turchia, credo. I primi indumenti erano semplici pelli che venivano conciate affumicandole. Le avevo detto che è un argomento interessante, una volta approfondito. Il vero esperto in materia è mio padre. È con lui che dovrebbe parlare, ma adesso vive in Florida. Chieda a mio padre qualcosa sui guanti e parlerà per due giorni di seguito. A proposito, questo è tipico. I guantai amano il loro mestiere e tutto ciò che lo riguarda. Mi dica, ha mai visto produrre qualcosa, signorina Cohen? – Non posso dire di sí. – Mai visto fare qualcosa? – Ho visto mia madre fare una torta quando ero piccola. Rise. Lo aveva fatto ridere. Una bambina vivace, avida d’imparare. Sua figlia era di trenta centimetri buoni piú alta di Rita Cohen, tanto bionda quanto lei era bruna, ma per il resto Rita Cohen, bruttina com’era, aveva cominciato a ricordargli Merry prima che la sua ripugnanza si manifestasse e che lei diventasse la loro nemica. L’alone di intelligenza positiva che si spandeva intorno lei quando tornava a casa da scuola, traboccante di tutto ciò che aveva imparato durante le lezioni. Come ricordava ogni cosa. Tutto annotato ordinatamente nel quaderno e imparato a memoria dalla sera alla mattina. – Le dirò cosa faremo. La faremo assistere a tutto il processo. Venga. Le faremo un paio di guanti, e lei assisterà alla loro confezione, dall’inizio alla fine. Che misura porta? – Non so. Piccola. Si era alzato dalla scrivania, aveva fatto il giro e si era impossessato della sua mano. – Piccolissima. Direi una sesta –. Aveva già tolto dal primo cassetto della scrivania una rotella metrica con un anello a D a un’estremità, poi gliela passò intorno alla mano, infilò l’altro capo nell’anello e le svolse la rotella intorno al palmo. – Vediamo se ho indovinato. Chiuda la mano –. Lei strinse il pugno, gonfiando un po’ la mano, e lui lesse la misura in pollici francesi. – È una sesta. Tra le taglie femminili, è la piú piccola. Piú piccole di cosí, ci sono solo le misure da bambini. Venga. Le farò vedere come si fa. Quando cominciarono a salire, fianco a fianco, i gradini di legno della vecchia scala, gli sembrò di aver rimesso piede nella bocca del passato. Si sentí dire (mentre, simultaneamente, sentiva suo padre dire): – Le pelli si scelgono sempre nell’ala nord della fabbrica, dove la luce del sole non è diretta. Cosí si può davvero valutarne la qualità. Dove entra la luce del sole, non si vede. La sala taglio e l’assortimento, sempre dal lato nord. La selezione in alto. Il secondo piano per il taglio. E al primo piano, dov’è venuta lei, la produzione. Pianterreno, rifinitura e spedizione. Procederemo dall’alto in basso. Cosí fecero. E lui era felice. Non riusciva a trattenersi. Non era giusto. Non era vero. Si doveva fare qualcosa per impedirlo. Ma lei continuava a prendere appunti e lui non riusciva a fermarsi: una ragazza che conosceva il valore del duro lavoro e della severa applicazione, e che s’interessava delle cose giuste, della preparazione della pelle e della confezione dei guanti, e fermarsi era impossibile. Quando si soffre come soffriva lo Svedese, chiedergli di non farsi illudere dal sollievo di un momento, per dubbia che ne fosse la motivazione, sarebbe stato chiedere troppo.
Nella sala taglio c’erano venticinque uomini al lavoro, cinque o sei per tavolo, e lo Svedese la condusse dal piú anziano, che le presentò come «il maestro», un ometto pelato con un apparecchio acustico che continuò a lavorare su un pezzo di pelle rettangolare (– Ecco il pezzo con cui si fa il guanto, – disse lo Svedese. – Si chiama trank), a lavorare di brassetto e di forbici per tutto il tempo in cui lo Svedese le spiegò chi era questo maestro. Allegramente. Sempre in preda a una specie di euforia. Senza far nulla per tenerla a freno. Ripetendo i discorsi di suo padre. La sala taglio era il posto dove lo Svedese si era convinto a fare il guantaio come suo padre, il posto dove credeva di essersi trasformato da ragazzo in uomo. La sala taglio, alta e piena di luce, era stato il suo posto preferito nella fabbrica da quando era bambino e i vecchi tagliatori europei venivano a lavorare vestiti in modo identico, con la giacca, il gilè, la camicia bianca inamidata, la cravatta, le bretelle e i gemelli sui polsini. Ogni tagliatore si toglieva la giacca con cura e l’appendeva nello stanzino, ma nessuno, che lo Svedese ricordasse, si era mai tolto la cravatta, e solo pochissimi di loro erano cosí poco convenzionali da togliersi il gilè, per non parlare di rimboccarsi le maniche della camicia, prima di mettersi un grembiule bianco pulito e attaccare la prima pelle, srotolandola dal pezzo di mussola inumidita e cominciando a distenderla. La fila di finestroni esposti a nord illuminava i tavoli di legno duro con la luce fredda e regolare necessaria per assortire, intonare e tagliare le pelli. La lucida levigatezza dell’orlo arrotondato del tavolo, lisciato in tanti anni da tutte le pelli che vi erano state distese e tirate, era cosí provocante, per il ragazzo, che doveva sempre trattenersi dal correre a premere la concavità della gota contro la convessità del legno; si tratteneva finché era solo. C’era una fila confusa di orme scavate nel pavimento di legno dove gli uomini stavano tutto il giorno in piedi intorno ai tavoli, e quando non c’era nessuno gli piaceva andare a mettersi con le scarpe dove il pavimento era consumato. Guardando lavorare i tagliatori, sapeva che erano l’élite e che lo sapevano anche loro e che lo sapeva anche il padrone. Benché loro si considerassero i piú aristocratici tra i presenti, padrone compreso, la mano del tagliatore era fieramente incallita dal lavoro che faceva con le forbici grosse e pesanti. Sotto quelle camicie bianche c’erano braccia, petti e spalle pieni della forza di un operaio: non potevano non essere robusti, per continuare a tirare pelli per tutta la vita, per spremere da ognuna di esse ogni centimetro di pelle che c’era. Si leccava a tutto spiano, un mucchio di saliva finiva in ogni guanto, ma, come diceva scherzando suo padre, «il cliente non lo saprà mai». Il tagliatore sputava nel materiale secco per inchiostrare in cui passava il pennello per lo stampino che numerava i pezzi ricavati da ogni trank. Tagliato un paio di guanti, si passava un dito sulla lingua per inumidire i pezzi numerati e attaccarli tra loro prima che venissero legati con un elastico per la caporeparto cucitura e le cucitrici. Il ragazzo non poteva dimenticare quei primi tagliatori tedeschi reclutati dalla Newark Maid che tenevano accanto a sé un boccale di birra dal quale ogni tanto bevevano un sorso «per bagnarsi l’ugola», dicevano, e non restare a corto di saliva. Lou Levov, abbastanza presto, aveva messo al bando la birra. Ma la saliva? No. Nessuno poteva desiderare di abolire la saliva. La saliva era parte integrante di tutto ciò che amavano, il figlio ed erede non meno del padre fondatore. – Harry è capace di tagliare un guanto nel modo migliore –. Harry, il maestro, era ritto accanto allo Svedese, indifferente alle parole del padrone, e faceva il suo lavoro. – È qui alla Newark Maid solo da quarantun anni, ma continua a darci dentro. Il tagliatore deve immaginare come la pelle si trasformerà nel maggior numero possibile di guanti. Poi deve tagliarla. Ci vuole molta abilità per tagliare bene un guanto. Tagliare guanti è un’arte. Non esistono due pelli identiche. Le pelli sono tutte diverse tra loro, a seconda dell’alimentazione e dell’età dell’animale, diverse come elasticità, e ci vuole un’abilità stupefacente per far sí che ogni guanto venga come tutti gli altri. Stesso discorso per la cucitura. Un lavoro che nessuno vuole piú fare. Non puoi prendere un’operaia che sa usare una macchina tradizionale, o che sa cucire abiti, e metterla qui a cucire guanti. Deve fare un corso di riqualificazione di tre o quattro mesi, deve avere una certa destrezza nelle dita, deve avere pazienza, e ci vogliono almeno sei mesi prima che sia pronta a raggiungere un’efficienza dell’ottanta per cento. Cucire guanti è una procedura terribilmente complicata. Se vuoi fare un buon guanto, devi spendere un mucchio di soldi per addestrare gli operai. Ci vuole un sacco di duro lavoro e di attenzione, con tutte le giravolte dove si cuciono le inforcature delle dita... È molto duro. Ai tempi in cui mio padre fondò la prima fabbrica di guanti, la gente ci passava tutta la vita: Harry è l’ultimo di loro. Questa sala taglio è una delle ultime del nostro emisfero. La nostra produzione è sempre al massimo. Abbiamo ancora gente, qui, che sa quello che fa. Nessuno taglia piú i guanti in questo modo, non in questo paese, dove non è rimasto quasi nessuno capace di tagliarli, e in nessun altro posto, tranne forse in qualche fabbrichetta a gestione familiare di Napoli o di Grenoble. Questa era gente, la gente che lavorava qui, che ci stava per tutta la vita. Erano nati nell’industria guantaria e nell’industria guantaria morivano. Oggi dobbiamo continuamente riqualificare il personale. Oggi la nostra economia è tale che la gente viene a lavorare qui e, se qualcuno le offre qualcosa per cinquanta cent in piú l’ora, se ne va. La ragazza prese nota di tutto. – La prima volta che sono entrato in fabbrica e mio padre mi ha spedito quassú a imparare a tagliare, non ho fatto altro che star qui davanti al tavolo a guardare quest’uomo. Ho imparato il mestiere come si faceva una volta. Dalla gavetta. Mio padre mi ha avviato al lavoro facendomi letteralmente spazzare i pavimenti. Ho lavorato in tutti i reparti, cercando di capire come si faceva e perché si faceva cosí. Da Harry ho imparato a tagliare un guanto. Non credo di essere stato un tagliatore particolarmente abile. Se ne tagliavo due o tre paia al giorno era molto, ma ho imparato i rudimenti. Giusto, Un maestro esigente, quest’uomo. Quando ti mostra come si fa una cosa, lo fa fino in fondo. Imparare da Harry mi ha fatto quasi rimpiangere il mio vecchio. Il primo giorno che venni quassú, Harry mi mise subito a posto. Mi disse che dove viveva lui i ragazzi bussavano alla sua porta e dicevano: «Potrebbe insegnarmi a fare il tagliatore di guanti?» E lui diceva loro: «Devi prima pagarmi quindicimila dollari, perché questi sono i soldi che mi farai buttar via, in tempo e in pelle, finché non arriverai a guadagnarti la paga minima». Lo osservai per due mesi interi prima che mi permettesse di avvicinarmi a una pelle. Un tagliatore medio ne taglia tre dozzine, tre dozzine e mezzo al giorno. Un tagliatore bravo, svelto, ne taglia cinque dozzine al giorno. Harry ne tagliava cinque dozzine e mezzo al giorno. «Tu credi che io sia bravo?» mi diceva. «Avresti dovuto vedere mio padre». Poi mi raccontò di suo padre e dello spilungone del Barnum e Bailey. Te lo ricordi, Harry? – Harry annuí. – Quando il circo Barnum e Bailey venne a Newark... Fu nel 1917 o nel 1918? – Harry tornò ad annuire senza interrompere il lavoro. – Insomma, vennero in città e avevano uno spilungone, un uomo alto quasi tre metri, e il padre di Harry un giorno lo vide per la strada che camminava all’angolo di Broad e Market, e si entusiasmò tanto che corse da lui, si sfilò una stringa dalla scarpa, misurò la mano di quell’uomo, là sul marciapiede, e andò a casa a fargli un paio di guanti perfetti misura undici e mezzo. Il padre di Harry li tagliò e sua mamma li cucí, poi andarono al circo e regalarono i guanti allo spilungone, e tutta la famiglia fu fatta entrare gratis, e un grosso articolo sul papà di Harry comparve il giorno dopo sul «Newark News». – Lo «Star-Eagle», – lo corresse Harry. – Giusto, prima che si fondesse col «Ledger». – Magnifico, – disse la ragazza, ridendo. – Suo padre doveva essere bravissimo. Non sapeva una parola d’inglese, – le disse Harry. – Davvero? Beh, questo dimostra che non si deve conoscere l’inglese, – disse lei, – per tagliare un paio di guanti perfetti per un uomo alto tre metri. Harry non rise ma lo Svedese sí, rise e le cinse le spalle con un braccio. – Questa è Rita. Le faremo un paio di guanti, misura sei. Neri o marrone, dolcezza? – Marrone? Da un fascio di pelli umide accanto a Harry, lo Svedese ne scelse una di un marrone chiaro. – Questo è un colore difficile da trovare, – le disse. – Bronzo inglese. Vede? Questo colore ha mille sfumature. Vede com’è chiaro qui, com’è scuro lí? Bene. Questa è pelle di agnellone. Quella che ha visto nel mio ufficio era piclata. Questa è stata conciata. Questa è la pelle. Ma si vede ancora l’animale. Se volesse vedere l’animale, – disse, – eccolo qui: la testa, il posteriore, le zampe anteriori, le zampe posteriori, ed ecco la groppa, dove la pelle è piú dura e piú spessa, come sopra la nostra spina dorsale... Dolcezza. Cominciò a chiamarla dolcezza in sala taglio e non riuscí piú a smettere, e questo ancor prima di capire che stando vicino a lei era vicino a Merry quanto poteva esserlo da quando lo spaccio era saltato in aria e la sua dolcezza era sparita. Questo è il brassetto, è di un pollice piú lungo di una riga americana... Questo si chiama coltello a piqué, è un coltello ma ha il filo smussato e non taglia... Ora Harry tira giú la trank cosí, per il lungo: Harry è pronto a scommettere che sarà capace di tirarla fino a coprire tutto il modello senza neanche toccarlo, ma io non accetto la scommessa perché non mi piace perdere... Questa si chiama lanzetta... Vede, tutto fatto meticolosamente... Harry taglierà i suoi guanti e poi me li darà per portarli giú al reparto produzione... Questa è una trancia, dolcezza. L’unica parte meccanica tutto il processo. Una pressa e uno stampo, la macchina taglia quattro pelli alla volta... – Accidenti! È un processo complicato, – disse Rita. – Proprio cosí. È davvero difficile arricchirsi nell’industria guantaria, perché richiede tanta manodopera: un processo molto lungo, tante operazioni da coordinare. Le fabbriche di guanti, generalmente, sono state aziende a gestione familiare. Di padre in figlio. Aziende molto tradizionali. Per la maggior parte degli industriali, un prodotto è un prodotto. Chi lo produce non sa nulla del prodotto. L’industria guantaria non è cosí. Questa industria ha una lunga, lunghissima storia. – Gli altri sentono il fascino dell’industria guantaria come lo sente lei, signor Levov? Lei ha una vera passione per questo posto e per tutti i processi. Immagino sia questo a renderla un uomo felice. – Davvero? – chiese lui, e si sentiva come se stessero per sezionarlo, tagliarlo con un coltello, aprirlo e svelare tutta la sua infelicità. – Credo di sí. – Lei è dunque l’ultimo dei Mohicani? – No, quasi tutti, credo, in questo campo, hanno lo stesso amore per la tradizione, la stessa passione. Perché ci vogliono passione e tradizione per spingere qualcuno a rimanere in un settore industriale come questo. Devi essergli molto legato per resistere. Venga, – disse, essendo riuscito per il momento a soffocare tutto ciò che lo seguiva e lo minacciava, scoprendosi capace di parlare con grande precisione nonostante lei gli avesse detto che era un uomo felice. – Torniamo al reparto produzione. Questa operaia fa i cordoni, ci sarebbe tutta una storia da raccontare, ma è la prima cosa che si fa... Questa si chiama macchina a piqué, cuce con punti piccolissimi, chiamati piqué, e richiede un’abilità molto maggiore delle altre macchine da cucire... Questa si chiama lustrina e quello si chiama palizzone e tu ti chiami dolcezza e io mi chiamo papino e questo si chiama vivere e l’altro si chiama morire e questa si chiama follia e questo si chiama piangere qualcuno che è morto e questo si chiama inferno, inferno puro e semplice, e devi essergli molto legato per resistere, questo si chiama sforzarsi-di-tirare-avanti-come-se-niente-fosse e questo si chiama pagare-il- prezzo-intero-ma-perché-in-nome-di-Dio?, questo si chiama vorrei-essere-morto-e-vorrei-trovarla-e-ucciderla-e- salvarla-da-tutto-quello-che-starà-passando-ovunque-sia-in-questo-momento, questo sfogo incontrollabile si chiama cancellare-tutto, e non funziona, sto perdendo la testa, troppo grande è la forza devastante di quella bomba... E poi erano di nuovo nel suo ufficio, ad aspettare che i guanti di Rita arrivassero dal reparto rifinitura, e lui le stava ripetendo una delle osservazioni preferite del padre, una cosa che suo padre aveva letto in qualche posto e usava sempre per fare colpo sui visitatori, e si sentí ripeterla, parola per parola, come se fosse sua. Se solo avesse potuto convincerla a restare e a non andarsene, se solo avesse potuto continuare a parlare di guanti con lei, di guanti, di pelli, del suo orribile enigma, pregarla, implorarla: Non lasciarmi solo con quest’orribile enigma... – Le scimmie, i gorilla, hanno il cervello, e anche noi abbiamo il cervello, ma loro non hanno questa cosa, il pollice. Non hanno il pollice opponibile come noi. Il dito interno della mano dell’uomo, questo potrebbe essere il carattere distintivo tra noi e il resto degli animali. E il guanto protegge questo dito interno. Il guanto da donna, il guanto del saldatore, il guanto di gomma, il guanto da baseball, eccetera. È la radice dell’umanità, questo pollice opponibile. Ci mette in grado di fabbricare arnesi, costruire città e via dicendo. Piú del cervello. Forse ci sono degli altri animali che, in proporzione al corpo, hanno il cervello piú grande del nostro. Non so. Ma la mano è una cosa complicata. Si muove. Non esistono altre parti del corpo coperte, in un essere umano, che abbiano una struttura mobile cosí complessa... – E quello fu il momento in cui Vicky si affacciò alla porta con i guanti finiti della sesta misura. – Ecco il suo paio di guanti, – disse Vicky, e li diede al padrone, che li esaminò e poi si sporse sopra la scrivania per mostrarli alla ragazza. – Vede le cuciture? La distanza dei punti dalla bordatura della pelle? Ecco da cosa si vede la lavorazione di qualità. Questo margine tra la cucitura e l’orlo è probabilmente meno di un millimetro. E questo richiede un’abilità di altissimo livello, un’abilità molto maggiore del normale. Se un guanto non è cucito bene, quest’orlo potrebbe essere di tre millimetri o piú. E non sarà diritto. Guardi come sono diritte queste cuciture. Ecco perché un guanto della Newark Maid è un buon guanto, Rita. Per le cuciture diritte. Per la pelle fine. È conciato bene. È morbido. È elastico. Ha lo stesso odore dell’interno di una macchina nuova. Io amo la buona pelle, amo i bei guanti e sono cresciuto con l’idea di fare i migliori guanti possibili. Ce l’ho nel sangue, e non c’è nulla che mi faccia piú piacere, – si aggrappava alla propria espansività come un malato si aggrappa a ogni sintomo di guarigione, per piccolo che sia, – che regalarle questi bei guanti. Ecco, – disse, – con i nostri omaggi, – e, sorridendo, offrí i guanti alla ragazza, che se li infilò, eccitata, sulle manine. – Piano, piano... Infilarseli sempre dalle dita, – le disse lui, – poi il pollice, poi sistemare il polso... La prima volta, infilarli sempre lentamente, – e lei alzò lo sguardo e, sorridendogli col piacere che prova ogni bambino nel ricevere un dono, gli mostrò, le mani in aria, com’erano belli quei guanti e come le stavano bene. – Stringa la mano, faccia il pugno, – disse lo Svedese. – Sente come il guanto si espande dove si espande la mano e come si adatta bene alla sua misura? Ecco cosa riesce a fare il tagliatore quando conosce il suo mestiere: il guanto non deve allungarsi piú di cosí, il taglio è stato calcolato apposta perché le dita non devono allungarsi, ma gli si lascia la segreta possibilità di cedere, un cedimento accuratamente misurato, nel senso della larghezza. Il cedimento in larghezza risponde a un calcolo preciso. – Sí, sí, sono magnifici, assolutamente perfetti, – gli disse lei, aprendo e chiudendo le mani. – Dio benedica i precisi calcolatori di questo mondo, – disse ridendo, – che ci lasciano la segreta possibilità di cedere in larghezza, – e solo dopo che Vicky ebbe chiuso la porta dell’ufficio con le pareti di vetro per tornare a immergersi nel frastuono del reparto produzione Rita soggiunse, a voce bassissima: – Vuole il suo album di Audrey Hepburn.

La mattina dopo lo Svedese incontrò Rita nel parcheggio dell’aeroporto di Newark per darle l’album. Dall’ufficio era andato, prima, a Branch Brook Park, chilometri e chilometri nella direzione opposta a quella dell’aeroporto, dove era sceso dalla macchina per fare una passeggiata solitaria. Là, camminò senza fretta dov’erano fioriti i ciliegi giapponesi. Per qualche tempo restò seduto su una panchina, guardando i vecchi con i loro cani. Poi, risalito in automobile, si mise a guidare attraverso il quartiere italiano di Newark nord fino a Belleville, facendo una mezz’ora di svolte a destra fino a quando ebbe la certezza di non essere seguito. Era stata Rita a dirgli di procedere cosí per andare all’appuntamento. La seconda settimana, nel parcheggio dell’aeroporto, le consegnò le scarpette da ballerina e la calzamaglia che Merry aveva indossato per l’ultima volta a quattordici anni. Tre giorni dopo toccò al diario tartaglione. Adesso, – disse, avendo deciso, col diario tra le mani, che era venuto il momento di ripetere le parole che sua moglie gli aveva detto prima di ciascuno dei suoi incontri con Rita, incontri durante i quali lo Svedese si era limitato a obbedire scrupolosamente alle richieste della ragazza senza chiederle deliberatamente nulla in cambio, – adesso potrà dirmi di sicuro qualcosa di Merry. Se non dove si trova, almeno come sta. – Quello che è sicuro è che non posso, – rispose, acida, Rita. – Vorrei parlarle. – Beh, Merry non vuole parlare con lei. – Ma se vuole questa roba... Perché, allora, dovrebbe volere questa roba? – Perché le appartiene. – Anche noi apparteniamo a Merry, signorina. – A sentir Merry, non si direbbe. – Non posso crederci. – Vi odia. – Davvero? – chiese lui, disinvolto. – È convinta che dovreste essere fucilati. – Sí? Addirittura? – Quanto paga gli operai nella sua fabbrica di Ponce, a Portorico? Quanto paga le operaie che cuciono guanti per lei a Hong Kong e Taiwan? Quanto paga le filippine che diventano cieche cucendo a mano i modelli destinati a soddisfare le signore che vanno a fare shopping da Bonwit? Lei non è altro che un piccolo capitalista di merda che sfrutta la gente con la pelle gialla o bruna e vive nel lusso dietro le robuste cancellate a prova di negri della sua villa. Lei non sa quello che dice! Ditte americane fanno guanti nelle Filippine, a Hong Kong, a Taiwan, in India e nel Pakistan... Ma la mia no! Io possiedo due fabbriche. Due. Una, a Newark, l’ha già visitata. E ha visto com’erano infelici i miei dipendenti. È per questo che lavorano per noi da quarant’anni, perché sono cosí vergognosamente sfruttati. Nella fabbrica di Portorico sono occupate duecentosessanta persone, signorina Cohen: persone che abbiamo preparato noi, partendo da zero, persone in cui abbiamo fiducia, persone che prima che a Ponce arrivassimo noi non avevano abbastanza lavoro per campare. Noi abbiamo creato posti di lavoro dove c’era scarsità d’impieghi, abbiamo insegnato a cucire alla gente dei Caraibi, che aveva poche di queste doti, se le aveva. Lei non sa niente. Lei non sa niente di niente. Non sapeva nemmeno cosa fosse una fabbrica finché non gliene ho mostrata una io! – So cos’è una piantagione, signor Legree1... Volevo dire, signor Levov. So che cosa significa dirigere una piantagione. Lei si prende molta cura dei suoi negri. Certo. Si chiama capitalismo paternalistico. Lei li possiede, lei dorme con loro, e quando non le servono piú li butta fuori. Li lincia solo quando è necessario. Li usa per divertirsi e li usa per profitto... – Per favore, questi stereotipi infantili non m’interessano affatto. Lei non sa cos’è una fabbrica, non sa cosa vuol dire produzione, non sa cos’è il capitale, non sa cos’è la manodopera, non ha la piú pallida idea di cosa significa essere occupati o di cosa significa essere disoccupati. Lei non ha idea di cosa significhi lavorare. Lei non ha mai avuto un lavoro in vita sua, e se si preoccupasse di trovarlo non durerebbe un giorno, né come operaia, né come direttrice, né come proprietaria. Basta con queste assurdità. Voglio che lei mi dica dov’è mia figlia. Questa è l’unica cosa che voglio sapere da lei. Merry ha bisogno di aiuto, ha molto bisogno di aiuto, non di ridicoli luoghi comuni. Voglio che lei mi dica dove la posso trovare! – Merry non vuole piú vederla. Né lei né... quel bel tipo di sua madre. – Che ne sa, lei, della madre di Merry? – Lady Dawn? La castellana? So tutto quello che c’è da sapere, di Lady Dawn. Che si vergogna tanto delle sue origini da dover trasformare sua figlia in una debuttante. – Merry ha spalato merda di vacca da quando aveva sei anni. Lei non sa quello che dice. Merry era nel Club 4-H. Merry guidava trattori. Merry... – Falso. Tutto falso. La figlia della reginetta di bellezza e del capitano della squadra di football: un incubo per qualsiasi ragazza che abbia un’anima! Gli abitini, le scarpine, ino questo e ino quello. Sempre a giocare con i suoi capelli. Lei crede che sua madre volesse acconciare i capelli di Merry perché l’amava, lei e la sua faccia, o perché era disgustata di sua figlia, disgustata di non avere una reginetta di bellezza in miniatura che potesse, con gli anni, somigliarle e diventare Miss Rimrock? Merry deve andare a lezione di ballo. Merry deve prendere lezioni di tennis. Mi stupisce che non le abbiate fatto rifare il naso. – Lei non sa quello che dice. – Perché crede che Merry stravedesse per Audrey Hepburn? Perché pensava che fosse la migliore chance che aveva, con quella sua mammina vanitosa.

L’uomo smania sempre piú di far qualcosa proprio quando non gli resta piú niente da fare.

Lo Svedese non era mai cosí a disagio, nelle occasioni mondane, come quando stava in piedi davanti ai quadri di Orcutt, che – diceva il foglietto distribuito all’ingresso – erano influenzati dalla calligrafia cinese; ma a lui non sembravano granché, neanche cinesi. Dawn, fin dall’inizio, li aveva trovati «intellettualmente
stimolanti» (secondo lei, mostravano il lato piú inverosimile di Bill Orcutt, una sensibilità di cui fino a quel momento non aveva mai visto la minima traccia), ma il pensiero principale che la mostra suscitava nello Svedese era questo: per quanto tempo continuare a fingere di guardare una tela prima di passare a fingere di guardarne un’altra? L’unica cosa che avesse voglia di fare per davvero era sporgersi in avanti per leggere i titoli incollati al muro di fianco a ogni dipinto, pensando che potessero aiutarlo, ma quando lo faceva (anche se Dawn gli diceva di non farlo, tirandolo per la giacca e mormorando: – Lascia perdere, guarda come ha lavorato il pennello), era solo piú abbattuto di quando guardava come aveva lavorato il pennello. Composizione n. 16, Quadro n. 6, Meditazione n. 11, Senza titolo n. 12... E cosa c’era sulla tela se non un fascio di lunghi baffi grigi cosí pallidi sullo sfondo bianco da suggerire l’idea che Orcutt avesse cercato non di dipingere il quadro ma di cancellarlo? Nemmeno consultare la descrizione della mostra nel volantino, scritta e firmata dalla giovane coppia proprietaria del negozio di cornici, si rivelava di grande utilità. «Il calligrafismo di Orcutt è cosí intenso che le forme si dissolvono. Poi, nell’incandescenza della propria energia, si dissolve la stessa pennellata...» Perché mai un uomo come Orcutt, non estraneo al mondo naturale e al grande dramma storico di questo paese (e un ottimo giocatore di tennis), perché mai voleva dipingere ritratti del nulla? Poiché lo Svedese doveva immaginare che quell’uomo non fosse un impostore (perché una persona ben educata e sicura di sé come Orcutt avrebbe dovuto fare tanta fatica per diventare un impostore?), per qualche tempo poté attribuire la confusione alla propria ignoranza dell’arte. A intervalli continuava a pensare: «In quest’uomo c’è qualcosa che non va. C’è una grande insoddisfazione. Questo Orcutt non ha quello che vuole», ma poi leggeva il foglietto e si rendeva conto che non sapeva di cosa parlava. «Vent’anni dopo i tempi del Greenwich Village, l’ambizione di Orcutt è sempre grande: creare», concludeva il critico, «un’espressione personale di temi universali che comprendano i perpetui dilemmi morali che definiscono la condizione umana». Allo Svedese non era mai venuto in mente che di quei quadri non si potesse dire molto solo perché erano vuoti, che si era costretti a dire che rappresentavano tutto perché non rappresentavano niente: che tutte quelle parole erano solo un altro modo di dire che Orcutt era privo di talento e che, per quanto seri fossero i suoi sforzi, non avrebbe mai potuto costruirsi un avvenire artistico o, se era per questo, qualcosa di diverso dall’avvenire le cui rigide definizioni lo avevano stecchito, come fasce, appena venuto al mondo. Lo Svedese non pensava di avere ragione, non pensava che quest’uomo apparentemente cosí in pace con se stesso, in sintonia cosí perfetta col luogo in cui viveva e con la gente che lo circondava, potesse stare inavvertitamente rivelando a tutti che non essere in sintonia era, in realtà, l’antico e segreto desiderio che aveva avuto la strana idea di soddisfare mettendosi a dipingere quadri che non sembravano rappresentare alcunché. Evidentemente, il meglio che potesse fare del suo desiderio di essere diverso era questa roba. Triste. In ogni modo, non contò né quanto fosse triste, né cosa lo Svedese chiedesse o non chiedesse o capisse o sapesse del pittore, il giorno in cui uno di quei quadri calligrafici che esprimevano i temi universali che definiscono la condizione umana trovò posto sulla parete del soggiorno dei Levov, un mese dopo che Dawn era tornata da Ginevra con la sua faccia nuova. E fu allora che le cose cominciarono a diventare un po’ tristi anche per lo Svedese. Era un fascio di baffi marroni, e non grigi, quelli che Orcutt aveva provato a cancellare da Meditazione n. 27, e lo sfondo, piú che bianco, era violaceo. I colori scuri, secondo Dawn, indicavano una rivoluzione negli strumenti formali del pittore. Questo fu ciò che gli disse, e lo Svedese, non sapendo come rispondere e non provando il minimo interesse per il significato di «strumenti formali», si rassegnò a esalare un fiacco: – Interessante –. Non avevano quadri appesi al muro quando lui era un bambino, per non parlare dell’arte «moderna»: l’arte non esisteva, in casa sua, non piú di quanto esistesse in quella di Dawn. I Dwyer avevano dei dipinti religiosi, cosa che avrebbe potuto persino spiegare il fatto che Dawn fosse improvvisamente diventata una conoscitrice degli «strumenti formali»: un segreto imbarazzo prodotto dall’essere cresciuta laddove, a parte le foto in cornice di Dawn e del fratello minore, gli unici dipinti erano i ritratti della Vergine Maria e del cuore di Gesú. Se queste persone raffinate hanno dei quadri moderni appesi al muro, anche noi vogliamo avere dei quadri moderni appesi al muro. Degli strumenti formali appesi al muro. Dawn poteva negarlo fin che voleva, ma non dipendeva un po’ da questo? Non c’era un pizzico d’invidia irlandese in tutto questo? Aveva comprato la tela direttamente dallo studio di Orcutt per la metà esatta di quanto era costato comprare Conte quando era un torello. Lo Svedese si disse: «Non pensare ai soldi, i soldi non sono tutto: non puoi paragonare un toro a un quadro», e in questo modo riuscí a dominare il proprio disappunto quando vide Meditazione n. 27 andare a occupare proprio lo stesso posto dove una volta era appeso il quadro di Merry che aveva amato, un ritratto scrupolosamente accurato, anche se troppo roseo, della bimba raggiante dalla frangia bionda che sua figlia era stata a sei anni. Glielo aveva dipinto, a olio, un vecchio e gioviale signore di New Hope che portava un grembiule e un basco nello studio che aveva laggiú – se l’era presa comoda, offrendo loro del vino brûlé e parlando del proprio tirocinio, di quando copiava i quadri del Louvre – e che era venuto sei volte a casa loro per ritrarre Merry in posa al pianoforte; e che aveva chiesto solo duemila verdoni per la tela e la cornice dorata. Ma, come fu spiegato allo Svedese, poiché Orcutt non aveva chiesto il trenta per cento in piú che il quadro sarebbe costato se l’avessero comprato dal corniciaio, i cinquanta bigliettoni erano stati un affare. Il commento di suo padre, quando vide il quadro nuovo, fu: – Quanto te l’ha fatto pagare? Con riluttanza Dawn rispose: – Cinquemila dollari. – Un mucchio di soldi, per la prima mano. Cosa dovrebbe rappresentare? – Rappresentare? – aveva risposto acidamente Dawn. – Beh, non è finito... Almeno spero... Eh? – Che non sembri «finito», – disse Dawn. – È proprio questa l’idea, Lou. – Ah, sí? – Guardò ancora. – Beh, se volesse finirlo, potrei suggerirgli come. – Papà, – disse lo Svedese, per prevenire ulteriori commenti. – Dawn l’ha comprato perché le piace, – e anche se avrebbe potuto suggerire all’autore, pure lui, come finirlo (probabilmente con parole molto simili a quelle che suo padre aveva in mente), era piú che disposto ad appendere qualunque cosa Dawn avesse comprato da Orcutt solo perché l’aveva comprata. Invidia irlandese o no, il quadro era un altro segno che in lei il desiderio di vivere era diventato piú forte del desiderio di morire che per due volte l’aveva condotta nella clinica psichiatrica. – Il quadro è una merda, – disse piú tardi lo Svedese a suo padre. – Il fatto è che lei lo voleva. Il fatto è che esercita di nuovo la sua volontà. Per piacere, – lo ammoní, sentendosi (stranamente, data la debolezza della provocazione) vicino alla collera, – non dire piú niente su quel quadro –. E poiché Lou Levov era Lou Levov, la volta successiva che venne a Old Rimrock la prima cosa che fece fu avvicinarsi al quadro e dire ad alta voce: – Sapete una cosa? Mi piace questo coso. Mi ci sto abituando e mi piace davvero. Guarda, – disse alla moglie, – guarda come il pittore non l’ha finito. Vedi? Lí dov’è sfocato? L’ha fatto apposta. È arte.

Secondo l’interpretazione di Dawn (che, quando gliela disse, diede allo Svedese l’impressione di contenere ancora una punta dell’antico risentimento), il messaggio delle camicie hawaiane estive era semplicemente questo: io sono William Orcutt III e posso mettermi ciò che gli altri, da queste parti, non avrebbero il coraggio di portare. – Piú grande ti credi nel gran mondo della contea di Morris, – disse Dawn, – piú sgargiante credi di poter essere. La camicia hawaiana, – disse, col suo sorriso beffardo, – rappresenta l’estremismo Wasp, la buffoneria Wasp. Ecco quello che ho imparato vivendo da queste parti: anche i William Orcutt Terzi hanno i loro piccoli momenti di esuberanza.

La moglie di Barry, Marcia, professoressa di letteratura a New York, era, anche nel giudizio generoso dello Svedese, «una donna difficile», una nonconformista militante estremamente sicura di sé, molto portata al sarcasmo e a dichiarazioni calcolatamente apocalittiche destinate a mettere a disagio i signori della terra. Non c’era nulla di quanto faceva o diceva da cui non trasparisse chiaramente da che parte stava. Le bastava muovere un muscolo – deglutire mentre parlavi, tamburellare con l’unghia di un dito sul bracciolo di una poltrona, fare un cenno con la testa come se fosse completamente d’accordo – per farti capire che nulla di quanto dicevi era corretto. Per contenere tutte le sue convinzioni si vestiva con larghi caffettani stampati: una donna voluminosa che con il suo aspetto disordinato, piú che protestare contro gli schemi, dimostrava la propria libertà e concretezza di pensiero. Né scemenze né luoghi comuni stavano tra Marcia e le piú ingrate verità.

la so piú lunga di quello che vorrei.

Fra gli uomini che sapevano tagliare un guanto bianco a sedici bottoni, credo che Al Haberman sia stato forse l’ultimo, in America, capace di farlo. Il guanto lungo, naturalmente, è sparito. Un’altra cosa che non tornerà piú. C’era il guanto a otto bottoni foderato di seta che diventò popolarissimo, ma verso il ’65 era scomparso pure quello. Prendevamo già allora i guanti piú lunghi, ne tagliavamo un pezzo per accorciarli, e usavamo quel pezzo per fare un altro guanto. Da qui, dove c’è la cucitura del pollice, mettevano un bottone ogni due centimetri e mezzo, per cui si parla ancora, in termini di lunghezza, di bottoni. Grazie a Dio, nel 1960 Jackie Kennedy comparve alla televisione con un guanto lungo fino al polso, e con un guanto lungo fino al gomito, e con un guanto sopra il gomito, e con un cappellino che sembrava un portapillole, e tutt’a un tratto i guanti tornarono di moda. La First Lady dell’industria guantaria. Portava un sei e mezzo. Chi lavorava nell’industria guantaria doveva ringraziare quella signora. Personalmente, lei si riforniva a Parigi, ma che importa? Quella donna rimise in auge i guanti di pelle per signora. Ma quando assassinarono Kennedy e Jacqueline Kennedy lasciò la Casa Bianca, questo e la minigonna segnarono la fine della moda del guanto per signora. L’assassinio di John F. Kennedy e l’avvento della minigonna, queste due cose insieme furono la campana a morto per il guanto da donna. Walter Scott, in uno dei suoi classici, parla di una discussione tra un guantaio e un calzolaio su chi dei due è l’artigiano migliore, e quello che la vince è il guantaio. Sapete cosa dice? «Tu non fai altro», dice al calzolaio, «che confezionare una manopola per il piede. Non devi girare intorno a ogni dito». Ma Walter Scott era figlio di un guantaio. Non c’è, dunque, da meravigliarsi se gli fece avere la meglio. Non lo sapevate che Walter Scott era figlio di un guantaio? Sapete chi era figlio di un guantaio, anche, a parte Walter Scott e i miei due figli? William Shakespeare. Suo padre era un guantaio che non sapeva né leggere né scrivere il proprio nome. Sapete cosa dice Romeo a Giulietta quando lei è sul balcone? Tutti sanno quello che dice lei: «Romeo, Romeo, dove sei, Romeo?» Ma Romeo che cosa dice? Io ho cominciato a lavorare a tredici anni in una conceria, ma posso rispondere grazie al mio amico Al Haberman che, disgraziatamente, non c’è piú. Settantatre anni, è uscito di casa, è scivolato sul ghiaccio e s’è rotto il collo. Terribile. Fu Al a raccontarmelo. Romeo dice: «Vedete come appoggia la gota alla mano? Vorrei essere solo il guanto che copre quella mano, cosí potrei toccare quella gota». Shakespeare. Il piú celebre autore della storia.

Ma che razza di maschera portano, tutti?

C’erano anche dei grandi piatti di pomodori, tagliati a grosse fette, conditi con olio e aceto e circondati da fette di cipolle rosse appena raccolte nell’orto.

Le due liceali che servivano in tavola emergevano dalla cucina ogni due o tre minuti per offrire silenziosamente a tutti le bistecche cucinate dallo Svedese, disposte su piatti di peltro, tagliate e grondanti sangue. Il servizio di coltelli da scalco dello Svedese era di Hoffritz, il miglior acciaio inossidabile tedesco. Era andato a comprarlo a New York, col grosso tagliere, per la loro prima festa del Ringraziamento nella casa di Old Rimrock.

Ma è stupefacente, e non manca mai di sbalordirmi, constatare come il vuoto si accompagni sempre alla sagacia. Lei non ha la piú pallida idea, in realtà, di quello che sta dicendo. Sai cosa diceva mio padre? «Tutto cervello e niente intelligenza. Piú sono svegli, piú sono stupidi». È pertinente.

Ecco l’inizio dell’inquisizione che lo Svedese non dimenticò mai: QUAL È IL SUO NOME COMPLETO, SIGNORINA DWYER? Mary Dawn Dwyer. LEI PORTA UNA CROCE INTORNO AL COLLO, MARY DAWN? Sí. Al liceo l’ho portata per un po’. DUNQUE, LEI SI CONSIDERA UNA PERSONA RELIGIOSA. No. Non è per questo che la portavo. La portavo perché ero stata a un ritiro, e quando tornai a casa cominciai semplicemente a portare una croce. Non era un grosso simbolo religioso. In realtà era solo il segno che durante il weekend ero stata a questo ritiro, dove mi ero fatta molte amiche. Era piú questo che la dimostrazione di essere una devota cattolica. AVETE CROCI IN CASA? ATTACCATE AL MURO? Una sola. SUA MADRE È UNA DONNA PIA? Beh, va in chiesa. SPESSO? Spesso. Tutte le domeniche. Senza fallo. Poi ci sono dei momenti, durante la Quaresima, in cui ci va tutti i giorni. E COSA NE RICAVA? Ricava? Non credo di aver capito bene. È una cosa che la conforta. Si trova conforto nell’andare in chiesa. Quando è morta mia nonna, è andata molto in chiesa. Quando muore qualcuno, o qualcuno è malato, contribuisce a darti un po’ di conforto. Qualcosa da fare. Cominci a dire il rosario con un’intenzione particolare... I ROSARI SONO LE CORONE DI PREGHIERE? Sissignore. E SUA MADRE LO RECITA? Beh, certo. CAPISCO. E ANCHE SUO PADRE È COSÍ? Cosí come? DEVOTO. Sí. Sí, certo. Andare in chiesa lo fa sentire un brav’uomo. Uno che sta facendo il suo dovere. Mio padre è molto convenzionale in termini di moralità. Gli hanno dato un’educazione cattolica molto piú rigida della mia. È un artigiano. Fa l’idraulico. Riscaldamento. Secondo lui, la Chiesa è una cosa grande e potente che ti fa fare quello che è giusto. Si preoccupa molto di quello che è giusto e di quello che non è giusto e del castigo per chi si comporta male e dei divieti che riguardano il sesso. IN QUESTO POTREI ESSERE D’ACCORDO. Lo immaginavo. Stringi stringi, lei non è poi tanto diverso da mio padre. TRANNE CHE LUI È CATTOLICO. LUI È UN DEVOTO CATTOLICO E IO SONO EBREO. NON È UNA DIFFERENZA DA POCO. Beh, forse non è neanche una differenza tanto grande. LO È. Sissignore. DI GESÚ E MARIA? Di Gesú e Maria? COSA PENSI DI LORO? Come individui? Io non penso a loro come individui. Ricordo quando ero piccola e dicevo a mia madre che l’amavo piú di chiunque altro, e lei mi diceva che non era giusto, che dovevo amare di piú Dio. DIO O GESÚ? Credo che fosse Dio. Forse era Gesú. Ma non mi piaceva. Piú di chiunque altro io volevo amare lei. A parte questo, non ricordo altri esempi specifici di Gesú come persona o come individuo. Per me, l’unica volta in cui sono reali è quando fai le stazioni della croce, il venerdí santo, e segui Gesú su per il monte fino alla crocifissione. Quello è un momento in cui diventa un uomo vero. E, naturalmente, Gesú nella mangiatoia. GESÚ NELLA MANGIATOIA? COSA PENSI DI GESÚ NELLA MANGIATOIA? Cosa penso del Bambin Gesú nella mangiatoia? Mi piace. PERCHÉ? Beh, in quella scena c’è sempre qualcosa di molto simpatico e consolante. E d’importante. Questo momento di umiltà. C’è tutta quella paglia, e qua e là dei piccoli animali, tutti stretti gli uni agli altri. È solo una bella scena, che scalda il cuore. Non ti viene mai in mente che fuori fa freddo e tira vento. Ci sono sempre delle candele accese. E tutti adorano questo bambinetto. TUTTO QUI? E TUTTI ADORANO QUESTO BAMBINETTO? Sí. Io non ci vedo niente di male. E DEGLI EBREI? ANDIAMO AL SODO, MARY DAWN. COSA DICONO I TUOI GENITORI DEGLI EBREI? (Pausa). Beh, io non sento parlare molto degli ebrei in casa mia. COSA DICONO I TUOI GENITORI DEGLI EBREI? VORREI UNA RISPOSTA. Piú importante, secondo me, di quello che credo lei voglia sapere è che mia madre potrebbe essere consapevole del fatto che non ama certa gente perché è ebrea, mentre non si rende conto che esistono delle persone che potrebbero non amare lei perché è cattolica. Una cosa che non mi piaceva, ricordo, era che una delle mie amiche in Hillside Road era ebrea, e ricordo che non mi piaceva che io potessi andare in paradiso e lei no. PERCHÉ LEI NON POTEVA ANDARE IN PARADISO? Se non eri cristiano non ci andavi, in paradiso. Mi sembrava molto triste che Charlotte Waxman non potesse venire con me in paradiso. COS’HA TUA MADRE CONTRO GLI EBREI, MARY DAWN? Non potrebbe chiamarmi solo Dawn, per favore? COS’HA TUA MADRE CONTRO GLI EBREI, DAWN? Beh, non è il fatto che gli ebrei sono ebrei. È che non siete cattolici. Per i miei genitori, fate tutto un mucchio con i protestanti. COS’HA TUA MADRE CONTRO GLI EBREI? RISPONDI. Beh, le solite cose che si sentono. IO NON LE SENTO, DAWN. DOVRAI DIRMELE TU. Beh, soprattutto che sono assillanti. (Pausa). E materialisti. (Pausa). Un’espressione che circola è «fulmine ebreo». FULMINE EBREO? Fulmine ebreo. E COSA VUOL DIRE? Non sa cos’è un fulmine ebreo? NON ANCORA. Quando appiccano un incendio per incassare il premio dell’assicurazione. Dando la colpa a un fulmine. Non l’ha mai sentito dire? NO, QUESTA MI GIUNGE NUOVA. È scandalizzato. Non volevo. SÍ, SONO VERAMENTE SCANDALIZZATO. MA SARÀ MEGLIO METTERE LE CARTE IN TAVOLA, DAWN. SIAMO QUI PER QUESTO. Non tutti gli ebrei. Gli ebrei di New York. E GLI EBREI DEL NEW JERSEY? (Pausa). Beh, sí, credo che siano, probabilmente, una variante degli ebrei di New York. CAPISCO. PER GLI EBREI DELLO UTAH NON VALE, IL FULMINE EBREO. O PER QUELLI DEL MONTANA. È COSÍ? PER GLI EBREI DEL MONTANA NON VALE. Non lo so. E TUO PADRE COSA DICE DEGLI EBREI? PARLIAMOCI CHIARO, SE VOGLIAMO RISPARMIARE A TUTTI, PIÚ TARDI, TANTE SOFFERENZE. Signor Levov, anche se dicono queste cose, per la maggior parte del tempo non dicono mai niente. Nella mia famiglia non si parla molto di niente. Due o tre volte l’anno andiamo al ristorante, i miei genitori, il mio fratello minore e io, e sono sempre stupita quando mi guardo intorno e vedo tutte le altre famiglie che parlano tra loro a tutto spiano. Noi stiamo là seduti a mangiare, e basta. STAI CAMBIANDO DISCORSO. Scusi. Non dico questo per scusarli, perché non mi piace, ma sto solo cercando di dire che è una cosa che non suscita forti reazioni. Non c’è rabbia vera e propria, né odio, sotto. Quello che vorrei sottolineare è che solo in rare occasioni lui usa la parola «ebreo» in modo spregiativo. In un modo o nell’altro, non è un grosso problema, ma ogni tanto qualcosa salta fuori. Questo è vero. E COME REAGIREBBERO SE TU SPOSASSI UN EBREO? Nello stesso modo in cui reagirebbe lei se suo figlio sposasse una cattolica. Una delle mie cugine ha sposato un ebreo. Magari la prendevano un po’ in giro, ma non è stato un grosso scandalo. Era un po’ piú vecchia, perciò erano tutti contenti, in un certo senso, che avesse trovato qualcuno. COS’È IL BATTESIMO? COS’HA DI TANTO IMPORTANTE? Beh, tecnicamente è un lavacro che toglie il peccato originale. Ma quello che fa è che, se dovesse morire, fa andare il bambino in paradiso. Altrimenti, se muoiono prima di essere battezzati, restano nel limbo. BEH, DIO CE NE GUARDI. MI PERMETTA DI FARLE UN’ALTRA DOMANDA. PONIAMO CHE IO DICA: OKAY, POTETE BATTEZZARE IL BAMBINO. CHE ALTRO VORREBBE, LEI? Credo che, quando fosse il momento, vorrei che i miei figli facessero la prima comunione. Ci sono i sacramenti, vede... ALLORA LEI VUOLE IL BATTESIMO PERCHÉ, DAL SUO PUNTO DI VISTA, SE IL BAMBINO MUORE VA IN PARADISO, E ANCHE LA PRIMA COMUNIONE. PUÒ SPIEGARMI DI CHE SI TRATTA? È la prima volta che prendiamo l’eucaristia. E CHE ROBA È? Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue... STA PARLANDO DI GESÚ? Sí. Non la conosce? Sa, quando tutti s’inginocchiano... «Questo è il mio corpo, mangiatene. Questo è il mio sangue, bevetene». E poi dici «Mio Signore e mio Dio» e mangi il corpo di Cristo. NON POSSO ARRIVARE FINO A QUESTO PUNTO. MI SPIACE, NON POSSO ARRIVARE FINO A QUESTO PUNTO. Beh, purché ci sia il battesimo, al resto penseremo dopo. Perché non lasciamo decidere al bambino, quando sarà il momento? PREFERISCO NON LASCIARE DECIDERE A UN BAMBINO, DAWN. PREFERISCO DECIDERE IO. NON VOGLIO FAR DECIDERE A UN BAMBINO SE VUOLE O NON VUOLE MANGIARE GESÚ. HO IL MASSIMO RISPETTO PER QUELLO CHE LEI FA, MA MIO NIPOTE NON MANGERÀ GESÚ. MI SPIACE. È FUORI DISCUSSIONE. ECCO QUELLO CHE FARÒ. LE CONCEDERÒ IL BATTESIMO. È TUTTO QUELLO CHE POSSO FARE PER LEI. Tutto qui? E LE CONCEDERÒ IL NATALE. Pasqua? PASQUA? VUOLE LA PASQUA, SEYMOUR. SA PER ME COS’È LA PASQUA, CARA DAWN? LA PASQUA È IL MOMENTO IN CUI SI ACCUMULANO TUTTE LE CONSEGNE. PRESSIONI DI OGNI GENERE PER AVERE I GUANTI IN TEMPO PER LA GENTE CHE A PASQUA RINNOVA IL GUARDAROBA. LE RACCONTERÒ UNA STORIA. IL 31 DICEMBRE DI OGNI ANNO, NEL POMERIGGIO, NOI ESAURIVAMO TUTTE LE ORDINAZIONI DI QUELL’ANNO, MANDAVAMO TUTTI A CASA, E CON I MIEI CAPIREPARTO IO STAPPAVO UNA BOTTIGLIA DI CHAMPAGNE, E PRIMA CHE AVESSIMO FINITO DI BERE IL PRIMO SORSO, TRIIIN, IL TELEFONO, DA UN NEGOZIO DI WILMINGTON, NEL DELAWARE, LA CHIAMATA DI UN ACQUIRENTE CHE VOLEVA CENTO DOZZINE DI GUANTINI DI PELLE, BIANCHI. PER VENT’ANNI O GIÚ DI LÍ ABBIAMO SEMPRE SAPUTO CHE SAREBBE ARRIVATA QUELLA TELEFONATA CON L’ORDINAZIONE DELLE CENTO DOZZINE MENTRE NOI BRINDAVAMO ALL’ANNO NUOVO, E QUELLI ERANO GUANTI CHE SERVIVANO PER PASQUA. Era la vostra tradizione. PROPRIO COSÍ, SIGNORINA. E ORA MI DICA, COS’È LA PASQUA, PER LEI? Lui che risorge. LUI CHI? Gesú. Gesú risorge. SIGNORINA, È UN BOCCONE AMARO QUELLO CHE LEI MI COSTRINGE A INGHIOTTIRE. IO CREDEVO CHE FOSSE QUANDO FATE LA PROCESSIONE. Sí, facciamo anche la processione. BENE, D’ACCORDO, LE CONCEDERÒ LA PROCESSIONE. SIAMO INTESI? Noi per Pasqua mangiamo il cosciotto. SE VUOLE IL COSCIOTTO PER PASQUA, VADA PER IL COSCIOTTO. CHE ALTRO? Andiamo in chiesa col cappellino nuovo. E CON UN PAIO DI BUONI GUANTI BIANCHI, SPERO. Sí. VUOLE ANDARE IN CHIESA IL GIORNO DI PASQUA E PORTARE CON SÉ MIO NIPOTE? Sí. Saremo quelli che mia madre chiama «i cattolici da una volta l’anno». È TUTTO? UNA VOLTA L’ANNO? (Batte le mani). SIAMO D’ACCORDO. UNA VOLTA L’ANNO. AFFARE FATTO! Beh, sarebbero due volte l’anno. Pasqua e Natale. CHE FARETE PER NATALE? Quando il bambino è piccolo, possiamo andare a messa quando cantano tutti gli inni natalizi. Bisogna andarci quando cantano tutti gli inni natalizi, altrimenti non ne vale la pena. Gli inni natalizi si sentono anche alla radio, ma in chiesa non li cantano prima della nascita di Gesú. QUESTO NON M’INTERESSA. QUEGLI INNI NON M’INTERESSANO AFFATTO. QUANTI GIORNI DURERÀ QUESTA STORIA DEL NATALE? Beh, c’è la vigilia. C’è la messa di mezzanotte. La messa di mezzanotte è una messa solenne... NON SO COSA SIGNIFICA E NON VOGLIO SAPERLO. LE CONCEDERÒ LA VIGILIA DI NATALE E LE CONCEDERÒ IL GIORNO DI NATALE E LE CONCEDERÒ IL GIORNO DI PASQUA. MA NON LA COSA DOVE LO MANGIANO. Il catechismo. E il catechismo? QUESTO NON GLIELO POSSO CONCEDERE. Sa cos’è? NON OCCORRE CH’IO SAPPIA COS’È. QUESTO È IL MASSIMO A CUI POSSO ARRIVARE. CREDO CHE SIA UN’OFFERTA GENEROSA. MIO FIGLIO GLIELO DIRÀ, LUI MI CONOSCE... C’INCONTRIAMO PIÚ CHE A METÀ STRADA. COS’È IL CATECHISMO? Quando vai a scuola e ti parlano di Gesú. ASSOLUTAMENTE NO. VA BENE? È CHIARO? AFFARE FATTO? VUOLE CHE LO METTIAMO PER ISCRITTO? POSSO FIDARMI DI LEI O DOBBIAMO METTERLO PER ISCRITTO? Lei mi fa paura, signor Levov. LE FACCIO PAURA? Sí. (Con le lacrime agli occhi). Non credo di potermi battere ancora. INVECE IO L’AMMIRO PER COME LEI SI BATTE. Signor Levov, ne riparleremo. NO, RIPARLARNE NON VA BENE. NE PARLIAMO SUBITO O MAI PIÚ. DOBBIAMO ANCORA PARLARE DELLE LEZIONI PER IL BAR MITZVAH. Se sarà un maschio e potrà fare il bar mitzvah, allora dovrà essere battezzato. E poi potrà decidere. DECIDERE CHE COSA? Quando sarà grande potrà decidere cosa gli piace di piú. NO. LUI NON DECIDERÀ UN BEL NIENTE. DECIDEREMO SUBITO NOI DUE. Ma perché non stiamo a vedere? NO. NON STAREMO A VEDERE. (Allo Svedese). Non posso continuare questa conversazione con tuo padre. È troppo rigido. Io posso solo perdere. Non possiamo negoziare cosí, Seymour. Io non voglio il bar mitzvah. LEI NON VUOLE IL BAR MITZVAH? Con la Torah e tutto il resto? ESATTO. No. NO? ALLORA NON CREDO CHE POTREMO RAGGIUNGERE UN ACCORDO. Allora noi non avremo figli. Io amo suo figlio. Non avremo figli, e basta. E IO NON SARÒ MAI NONNO. È QUESTO IL PATTO? Lei ha un altro figlio. NO, NO, COSÍ NON VA. SENZA RANCORE, MA IO CREDO CHE FORSE OGNUNO DOVREBBE ANDARE PER LA SUA STRADA. Non possiamo aspettare e vedere che cosa succede? Signor Levov, stiamo parlando di cose che succederanno fra tanti anni. Perché non possiamo lasciare che sia lui, o lei, a decidere quello che vuole? ASSOLUTAMENTE NO. IO NON PERMETTO CHE SIA UN BAMBINO A PRENDERE QUESTE DECISIONI. COME DIAVOLO FA A DECIDERE? CHE NE SA, LUI? NOI SIAMO DEGLI ADULTI. IL BAMBINO NON È UN ADULTO. (Si alza in piedi dietro la scrivania). SIGNORINA DWYER, LEI È BELLA COME UN QUADRO. MI CONGRATULO CON LEI PER TUTTA LA STRADA CHE HA FATTO. NON TUTTE LE RAGAZZE SONO ALLA SUA ALTEZZA. I SUOI GENITORI DEVONO ESSERE MOLTO FIERI. LA RINGRAZIO PER ESSERE VENUTA NEL MIO UFFICIO. GRAZIE E ARRIVEDERCI. No. Non me ne vado. Non voglio andare via. Io non sono un quadro, signor Levov. Sono me stessa. Sono Mary Dawn Dwyer di Elizabeth, New Jersey. Ho ventidue anni e sono innamorata di suo figlio. Ecco perché sono qui. Io amo Seymour. Lo amo. Continuiamo per piacere.
 
@font-face {font-family:Helvetica; panose-1:0 0 0 0 0 0 0 0 0 0; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:auto; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1342208091 0 0 415 0;}@font-face {font-family:"Cambria Math”; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;}@font-face {font-family:Calibri; panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:swiss; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536859905 -1073732485 9 0 511 0;}@font-face {font-family:Times; panose-1:0 0 5 0 0 0 0 2 0 0; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:auto; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1342185562 0 0 415 0;}p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:"”; margin-top:0cm; margin-right:0cm; margin-bottom:10.0pt; margin-left:0cm; mso-pagination:widow-orphan; font-size:48.0pt; mso-bidi-font-size:28.0pt; font-family:"Times New Roman”,serif; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-fareast-language:EN-US; mso-bidi-font-style:italic;}.MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:48.0pt; mso-ansi-font-size:48.0pt; mso-bidi-font-size:28.0pt; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-fareast-language:EN-US; mso-bidi-font-style:italic;}.MsoPapDefault {mso-style-type:export-only; margin-bottom:10.0pt;}div.WordSection1 {page:WordSection1;}