La Lettura, 19 marzo 2022
La battaglia di Stalingrado
La battaglia di Stalingrado, combattuta dall’Armata rossa contro le forze dell’Asse, dura sei mesi: dal 17 luglio 1942 all’inizio di febbraio del 1943. Va distinta in tre fasi: il conflitto per il possesso del territorio (luglio-agosto 1942); la lotta dentro la città e nei suoi dintorni (settembre-novembre 1942); la reazione sovietica e la disfatta tedesca (dicembre 1942- febbraio 1943).
All’inizio, vide fronteggiarsi 187 mila soldati dell’Urss e 250 mila dell’Asse; alla vigilia della controffensiva sovietica, un milione e 103 mila effettivi per l’Urss e 1.011.000 per i Paesi dell’Asse (tra cui 220 mila italiani, 200 mila ungheresi, 143 mila romeni). Alla fine si contarono, tra i soldati e ufficiali dell’Armata rossa, 478 mila morti, dispersi e prigionieri, e circa 650 mila feriti o malati; tra le forze dell’Asse, circa 750 mila vittime (tra cui 170 mila romeni e 85 mila italiani), compresi 130 mila feriti all’interno della città.
L’importanza della battaglia di Stalingrado è soprattutto nel fatto che segnò l’inizio della ritirata tedesca e impresse un ritmo decisivo alle sorti della Seconda guerra mondiale. Sullo svolgimento delle tre fasi disponiamo di una cospicua letteratura specialistica, ma ciò che ha maggiormente attirato l’opinione comune è la seconda fase, quando per Hitler – indipendentemente da ogni considerazione strategica – diventò questione di prestigio completare la conquista della città, dopo la distruzione dei maggiori impianti industriali e la presa di possesso degli approdi sul fiume Volga.
D’altra parte, la stessa dirigenza sovietica diede, alla difesa di Stalingrado, un’importanza che andava ben oltre il significato strettamente militare. Da qui il mito dell’eroismo intorno alla resistenza nel centro urbano, casa per casa, tra aree edificate ridotte in macerie, strade in frantumi per l’innesco di cariche esplosive e mine anticarro, con effettivi militari nel complesso esigui, scarsi rinforzi e postazioni mobili di franchi tiratori.
I sovietici adottarono la tecnica della distanza di «trincea» minima (non più di cinquanta metri) con le forze d’attacco nemiche, obbligando quindi i loro dispositivi di difesa – supporti aerei e di artiglieria – a cessare l’uso delle armi per non fare cadere i propri soldati nel «fuoco amico». I tedeschi la definirono come Rattenkrieg, «guerra dei topi». E chiamarono Nachthessen, «streghe della notte» i tre reggimenti di donne che pilotavano i caccia e sganciavano bombe sulle basi di rifornimento.
A Stalingrado fu attribuito, il 1° maggio 1945, il titolo di «città eroina». I piani di ricostruzione, così come in altre città liberate, suscitarono ampi dibattiti. Tentativi di lettura demitizzata del conflitto vennero sia da letterati sia da architetti, i quali proposero forme compositive e raffigurative contro l’ampollosa esaltazione dell’eroismo, la struttura retorica e il patetismo altisonante dei discorsi o segni commemorativi, il gusto della monumentalità, che avevano fino a quel momento plasmato la monotona uniformità del realismo staliniano.
Fu questa, ad esempio, la posizione di Viktor P. Nekrasov, autore nel 1946 del romanzo Nelle trincee di Stalingrado, stampato in milioni di esemplari e tradotto in oltre quaranta lingue, che lo rese il protagonista della moderna letteratura di guerra (in Italia è stato pubblicato da Mondadori nel 1964 e riproposto da Castelvecchi nel 2013 e da Elliot due anni più tardi).
Scrivere con la lingua della verità non significava, a suo avviso, raffigurare il sentimento d’indignazione del combattente o attribuirgli un volto con l’espressione di cavaliere adirato. Significava avere il coraggio di ritrarre un soldato coperto di polvere, stanco, nel suo soprabito logoro, e privo di elmetto, senza per questo temere di sminuirne l’immagine di difensore della patria. Perché la guerra non era fatta solo di attacchi audaci e dell’ingresso delle truppe, con le bandiere al vento, nelle città liberate. Era anche la tensione nervosa fino al limite, i denti serrati, l’amarezza della ritirata. A chi intendeva commemorare Stalingrado con granito, marmo, bronzo e sculture maestose, Nekrasov ricordava la realtà del combattente ucciso con piccoli dettagli, che irrompono nello schema narrativo del romanzo: «Giaceva sulla schiena con le braccia aperte e alle sue labbra era rimasto attaccato un mozzicone. Un mozzicone che fumava ancora. E questo era più spaventoso delle città distrutte, dei ventri squarciati, delle labbra e delle gambe troncate. Le braccia aperte e un mozzicone tra le labbra. Un momento fa c’era ancora la vita, i pensieri, i desideri. Ora c’era la morte».
Questa prosa asciutta e dura, sull’essere umano in un conflitto terribile, ci richiama al fatto che non è per niente facile immortalare i luoghi storici, mettere in evidenza e sottolineare lo spazio senza sovraccaricare o soffocare, preservando la gravità dei territori dove poco tempo prima infuriavano gli scontri.
A Stalingrado si decise infine di realizzare un imponente e sfarzoso complesso monumentale, dominato dall’immensa statua La Madre Patria chiama!, realizzata nel 1959-1967 e collocata sul Mamaev Kurgan, altura situata nella riva destra del fiume Volga, là dove si erano verificati i più aspri combattimenti.
Nel 1961 la città fu ribattezzata, nel quadro del programma di destalinizzazione, Volgograd, una scelta ancora oggi controversa, visto il valore simbolico del toponimo, come dimostra la decisione, nel 2013, di riconoscere l’adozione del titolo di «citta-martire di Stalingrado» in specifiche date del calendario civile. Quel ritorno al passato s’integrava in una strategia patrimonialista della storia che – come dimostra l’inaugurazione, nel 2020, del Memoriale di Ržev al Soldato sovietico – prevede ancora molte pagine da scrivere.