Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 19 Sabato calendario

L’assedio di Sarajevo


La suite 503 c’è ancora. E anche l’Holiday Inn è sempre uguale, su quello che allora era per tutti il Viale dei Cecchini. L’albergo simbolo dove tutto iniziò e da dove molto si vide: lo stesso cubo giallo in «stile Lego-socialista» a blocchi incastrati, come l’aveva descritto un giornale quando era stato costruito per l’Olimpiade invernale del 1984. Solo che oggi l’Holiday Inn non si chiama più così. La nuova proprietà austriaca ha scelto un più neutro Olympic Hotel Holiday Sarajevo. E nella galleria fotografica che collega la hall al ristorante s’espongono soltanto immagini del magico febbraio ’84, slalom e campioni felici.
Trent’anni dopo, niente che ricordi i muri crivellati, l’«acquario dei giornalisti», la gente che per 43 mesi vi moriva davanti. Chissà adesso com’è dormirci, nella 503: l’appartamentino che occupava Radovan Karadzic, il 6 aprile 1992, e che il leader dei serbi di Bosnia abbandonò proprio quella mattina di spari dal tetto. Quando all’alba se la diede a gambe, portandosi dietro moglie e figlia, le mappe, uno scatolone di Marlboro, due casse di Dom Pérignon e il gatto, l’amato micino che un cameriere dell’albergo aveva l’ordine di nutrire ogni giorno con un piatto di filetto tagliato al coltello. La 503 fu la suite della morte. La camera con vista sulla più spaventosa guerra conosciuta dall’Europa dopo il 1945, prima che arrivasse l’Ucraina.
Molto da ricordare, poco da commemorare. L’inferno di Kiev ci basta e ci avanza: in questi giorni d’immagini che ci ossessionano, che motivo abbiamo di ripercorrere massacri da libri di storia come la Bosnia, riesumarne i centomila morti, rammentare un’umanità che diede il peggio di sé coi novemila ammazzati di Srebrenica, i lager, le pulizie etniche? Una prima risposta viene proprio da una delle tante sciocchezze pappagalleggiate da troppi talk-show: dopo più di settant’anni, si sente ripetere, Putin ha portato di nuovo la guerra nel cuore dell’Europa... Pro memoria: ci furono cinque conflitti sanguinosissimi, nei Balcani anni Novanta, proprio dietro casa nostra, che fecero 250 mila vittime e due milioni e mezzo di profughi, polverizzarono la Jugoslavia e la spezzettarono in sette nuovi, antichi Stati.
Quella di Bosnia, corollario di quella croata, non fu solo la peggiore guerra europea dal 1945. Fummo noi che d’improvviso, caduto il Muro di Berlino e disciolta l’Urss, c’eravamo illusi di concludere il nostro secolo breve nella pace e ci trovammo, invece, di fronte a una barbarie tribale, medievale. Tante crisi di oggi sono figlie di quei pogrom. Tanti nodi si crearono allora, per non sciogliersi più. Dove, se non per la Bosnia, tornarono a confrontarsi in Europa i cristiani e i musulmani? E dove, se non lì, la Russia di Eltsin ricevette la sua più grande umiliazione: desiderosa d’entrare nella Nato (ebbene sì...), tenuta alla porta, infine costretta all’umiliazione d’assistere impotente al primo bombardamento nella storia dell’Alleanza atlantica. «Non ci hanno fatto neanche una telefonata per avvertirci dell’attacco», dissero allora al Cremlino. «Miope e arrogante – ci confidava qualche mese fa il ministro degli Esteri russo dell’epoca, Andrej Kozyrev, ben prima che si scatenasse la questione ucraina – Bill Clinton non agevolò mai il nostro avvicinamento alla Nato. A me era chiaro quanto l’adesione al Patto fosse importante, più per ragioni interne alla politica russa che per motivi esterni. Volevo evitare che a Mosca si creassero forze anti-Nato e s’entrasse in conflitto, sarebbe stata una nuova edizione della Guerra fredda. Purtroppo, non fui ascoltato. Per combattere il nazionalismo serbo dei Milosevic e dei Karadzic, gli Usa finirono per alimentare quello russo. Ci misero in difficoltà con chi voleva scalzarci. Fu lì che l’orologio della storia tornò indietro. Da quel momento, prese piede l’idea neo-imperiale di Putin».
Anche le coscienze si divisero, sulla Bosnia. Come prima o poi accadrà, e forse sta già accadendo, sull’Ucraina. Non c’era nessuno che giustificasse gli orrori delle soldataglie di Arkan, le sue Tigri che cavavano gli occhi ai prigionieri vivi e ingravidavano le bosniache perché partorissero bimbi de-musulmanizzati. Ma c’erano molti che non accettavano di vedere il torto solo dalla parte degli aggressori (i serbi) e le ragioni solo da quella degli aggrediti (i bosniaci). Quanti distinguo, quanto impegno: Adriano Sofri che viveva a Sarajevo sotto le bombe, Peter Handke capace di prendere le parti del carnefice Milosevic.
Anche i profughi di guerra: la Bosnia fu la prima volta in cui li accogliemmo a braccia aperte, probabilmente perché bianchi e biondi e non troppo musulmani, con un’empatia molto simile a quella che dimostriamo oggi per i rifugiati da Leopoli. E l’assedio di Kiev? Se davvero sarà un assedio, rischia di somigliare per molti aspetti più a quanto accadde a Sarajevo che non ad Aleppo. Sperando non ne abbia le stesse caratteristiche: fra i più lunghi della storia moderna, peggio di Stalingrado, un’angosciante tenaglia che esaltò la resistenza dei bosniaci e alla lunga condannò la ferocia dei serbi.
Accadeva solo trent’anni fa, e appena al di là dell’Adriatico, ma già non ce ne ricordiamo più. La memoria rimane negli articoli d’un giornalismo eroico, l’ultimo senza internet e i social. Che non si lasciò intossicare dai falsi della propaganda (altro che le balle russe sui bombardamenti in ospedale, fatte passare per messinscene, e sugli insulti alle vittime) e anzi riuscì a smascherarne i trucchi e i massacri. Resta agli atti pure una verità giudiziaria, la prima, perseguita fino al punto di processare un capo di Stato come Milosevic e di provarne il disegno genocidario (altro che i dubbi sulla possibilità di portare Putin alla sbarra).
Sì, ormai posiamo dirlo: la Bosnia segnò per tutti noi un prima e un dopo, anche se non ce ne siamo mai resi conto. Sarajevo e i suoi spari aprirono il Novecento con l’attentato all’Arciduca e lo chiusero con l’orrore di Srebrenica. Più d’altri luoghi è il brand delle tragedie che ci spiazzano, ci sgomentano, ci travolgono. Un giorno di primavera, l’anno scorso, abbiamo incontrato a Sarajevo il vecchio maitre dell’Holiday Inn. Si chiama Slobo Kukuca, è un pensionato, ogni tanto si fa un giro nella hall e s’abbandona ai racconti. Conserva ancora nel telefonino le immagini di quei mesi. E cita spesso un giornalista della Bbc d’allora, Martin Bell: a Sarajevo non serviva uscire dall’albergo a cercare la guerra, perché era la guerra che veniva a cercarti. Ovunque, sempre. Non ci è rimasta addosso, pure oggi, quell’inquietante sensazione?