Tuttolibri, 19 marzo 2022
Ritratto di Elsa Morante
«La mia stella è il leone, che non è molto simpatica, perché tutti i dittatori sono del leone, ma io non sono un dittatore! Sono nata sotto il segno del leone, il 18 agosto 1912».
Alle tre e mezza di un caldo pomeriggio d’estate, in via Aniero 7, a Roma, nasce Elsa Morante.
La scrittrice – o meglio lo scrittore, come ci teneva a farsi definire lei – nasce in quello stesso pomeriggio: un coinquilino amato e odiato che rimarrà con lei per sempre. Fuori, è una bambina di cui tutti dicono che è intelligente, educata, carina, ma dentro di lei c’è l’inferno: «L’anima mia era una cosa grossa e nera, piena di occhi curiosi e di tortuosi, cupi vicoli». Come i vicoli di Roma sotto i bombardamenti e in mezzo alla guerra e alla miseria che si scuotono e si sgretolano in ogni pagina del suo libro più controverso, La storia.
Elsa Morante è un serpente. È un pesce che appena lo prendi ti sguscia dalle mani e si rituffa in acqua, non prima di averti lanciato un ultimo sguardo severo. Potresti non vederlo mai più. Ha vissuto anni cruciali per la storia e la letteratura, tra le guerre, il neorealismo, le contestazioni, il ‘68, mentre la società letteraria decretava la morte del romanzo. Lei se ne stava tutta concentrata nel suo mondo, al di là del tempo e della storia. Sfuggiva a tutte le definizioni, le regole, le correnti letterarie, e in qualche bellissimo modo anche alla ragionevolezza. È stata una ragazza indipendente che lascia famiglia e scuola e si mette a scrivere tesi di laurea, articoli e racconti per vivere, ha freddo, indossa dei brutti guanti e non ha niente da mangiare. È stata la moglie di Alberto Moravia. È stata una donna indipendente e orgogliosa dopo la separazione da Moravia, a cui non ha mai concesso il divorzio. Ha amato di un amore impossibile Luchino Visconti, ed è stata amante del giovane pittore Bill Morrow, morto precipitando – o suicidandosi – da un grattacielo. È stata all’apice del successo di pubblico e critica. È stata stroncata da quasi tutti gli intellettuali suoi contemporanei. È stata generosa, piena di amici ma molto più spesso è stata scontrosa, cupa, solissima negli ultimi anni e, come dice chi l’ha vista negli ultimi giorni, quasi un’altra persona subito prima di morire. Ha sempre odiato la vecchiaia: «La decadenza della giovinezza e della grazia mi rattrista più della morte. Vorrei finire prima di vedere troppo offesa questa poca grazia naturale di cui la natura mi ha fornito, sebbene essa non sia servita a farmi amare da nessuno». Si è sempre dibattuta nell’eterna questione dell’essere scrittore e essere donna in un mondo che lei stessa definiva razzista. È stata una scrittrice di tante, tantissime cose, ma soprattutto di madri e figli. Non è mai stata madre.
È il 1936. La città è Roma. Elsa ha 24 anni. Il pittore Giuseppe Capogrossi l’aspetta alla birreria Dreher di piazza Santi Apostoli, per cena. Vuole farle conoscere Moravia. Comincia così una lunghissima relazione dilaniata dalla competizione, dall’amore, dal dolore, da questa sensazione che non l’abbandonerà mai: la frustrazione per le sue origini umili e l’orgoglio di essersi fatta da sé. Come sempre, Morante prova ogni sentimento estremo: dall’autoesaltazione all’autodenigrazione: «A. è infatti uno snob e io vorrei soddisfare con la mia persona il suo snobismo, avendo per esempio un’alta posizione sociale o essendo illustre. Niente di tutto questo è». Inferno e paradiso. Orgoglio, e disperazione. Desiderio di sovrastare gli altri e un bisogno piccolo, anche ingenuo a modo suo: essere amata. E poi, in una nota datata Roma, 26 marzo ‘38: «Madonna, dammi un po’ di pace». Il 14 aprile 1941, Morante e Moravia si sposano.
Adesso Elsa lascia tutti gli altri lavori e si concentra sui romanzi. Nel ‘43 comincia scrivere su una serie di quaderni la prima versione del suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio. Ma arriva la guerra e poi le leggi razziali. Racconta Moravia: «Una mattina, dopo l’8 settembre, ero in piazza di Spagna, incontrai un tale. Mi disse: “Guardi che lei è nelle liste delle persone da arrestare"». Morante e Moravia chiedono aiuto a tutti: tutto ciò che possono offrire è una valigia piena di scatole di sardine. Non li aiuta nessuno. Devono scappare in fretta. Elsa lascia a casa di un amico i quaderni su cui sta scrivendo. Chissà che coraggio per lasciare il cuore del suo romanzo a Roma. Prendono il treno per Formia. La linea è interrotta dai bombardamenti. Con i bagagli, due valigie in tutto, scendono a Fondi.
Si nascondono per mesi al freddo, con quasi niente da mangiare, si sono portati pochi vestiti leggeri, la Bibbia e i Fratelli Karamazov. Poi a un certo punto, dice Moravia: «questi Fratelli Karamazov ci servirono per pulirci il sedere, perché non c’era più carta, e nemmeno foglie d’albero, in pieno inverno». Ma Elsa non ha paura di niente, torna perfino a Roma per prendere abiti più pesanti per sé e il marito. A Fondi è una specie di Erinni, tutta impegnata a difendere il suo uomo dai fascisti, dalla fame, dalla morte. Moravia dirà che forse quello è il momento in cui l’ha vista più felice: «A Sant’Agata si era trovata nel suo elemento: pericolo, dedizione, sacrificio, sprezzo della vita». L’unica volta in cui non deve dimostrare niente, non deve combattere col senso di inadeguatezza, col fatto di essere una donna in un mondo di uomini, e non deve combattere contro quest’uomo che le sfugge sempre e la tradisce. Non qui. A Fondi, Moravia non può scappare da nessuna parte.
Tornata a Roma, riprende a scrivere i quaderni. E poi a dattiloscrivere il suo primo romanzo, «scritto in assoluta autonomia rispetto alla politica culturale dominante»: cosa che sarà il grande pregio di tutti i suoi romanzi ma anche che la porterà all’apice e alla disperazione. Natalia Ginzburg s’innamora di questa scrittrice coraggiosa e spaventosa. Menzogna e sortilegio esce nel ’48. È la storia di tre generazioni di una famiglia siciliana raccontata da Elisa, l’ultima rimasta viva. Nella casa ormai vuota, Elisa sente l’eco delle generazioni che hanno vissuto qui e che qui sono rimaste intrappolate, come fossero fantasmi. «Il mio riflesso mi si fa incontro a tradimento; io sussulto, al vedere una forma muoversi in queste funebri acque solitarie, e poi, quando mi riconosco, resto immobile a fissar me stessa, come mirassi una medusa». Menzogna e sortilegio vince il Premio Viareggio e, seppur con alterne critiche, la consacra come una vera scrittrice. O un vero scrittore.
In questi anni il legame con Moravia diventa sempre più tumultuoso, fino a diventare impossibile. Elsa stringe una fortissima amicizia con Pasolini. Nel ‘57 esce L’isola di Arturo, un romanzo sensuale, visionario e spietato. Un romanzo, ancora, sulle madri. Di sua madre morta dandolo alla luce, il protagonista e io narrante non ha che un «ritratto su cartolina. Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale». La madre nuova è «ancora una fanciulletta», di un paio d’anni più grande di lui. Con lei Arturo prova i primi turbamenti sessuali; ma non vuole che sia così: e quindi la odia, la maltratta, e poi la ama, ma non può amarla, e l’abbandona. Calvino, che era stato tiepido con Menzogna e sortilegio, scrive in proposito a Morante una nota ambigua: «Tu credi nel genere umano, ne hai ammirazione, senso della bellezza ed eccezionalità umana: un modo raro, oggi, di guardare il mondo». Con questo secondo romanzo, che si guadagna gran successo di pubblico e col tempo anche di critica, Morante è la prima donna a vincere il Premio Strega. Diventa una scrittrice amata e rispettata.
«Invidio Alberto che è così metodico. Lui non crede all’ispirazione ma alla perseveranza e qualunque cosa avvenga si mette a scrivere ogni mattina. Poi è libero e soddisfatto e la giornata gli si stende davanti placata. Io invece riesco a scrivere soltanto di pomeriggio e soltanto quando i miei personaggi mi chiamano. Ma il lavoro pomeridiano incide su tutta la giornata, proietta la sua ombra, come un rimorso, anche sul profilo innocente dei mattini. Solo il momento in cui si deve accendere la lampada sul tavolo mi salva».
Giugno ‘74: esce il terzo romanzo di Morante, La Storia, un libro libero, a cui non importa niente di tutto ciò che il mondo intellettuale vuole in quegli anni dai romanzi: il capolavoro di una grandissima scrittrice. Il pubblico la acclama. La critica la stronca. «Por el analfabeto a quien escribo», è la dedica de La storia; «uno scandalo che dura da diecimila anni», il sottotitolo dell’edizione originale, uscita, per volere dell’autrice, già in edizione economica: costa 2mila lire, la tiratura è di 100mila copie. Vanno esaurite in un mese. Calvino è indignato. Scrive che non è il momento di romanzi così; troppo classico, troppo lacrimoso: «Oggi sentiamo che far ridere il lettore, o fargli paura sono procedimenti letterari onesti; farlo piangere, no. Perché nel far piangere ci sono pretese che il far ridere o il far paura non hanno. Cosa fare allora? Guardarsi bene dall’essere “umani” nello scrivere? Siamo in molti ormai a pensarla così; ma non è che aggirare l’ostacolo». Il mondo letterario e il pubblico non fanno che parlare di questo romanzo. Tutto l’odio, l’amore, l’invidia: è tutto lì. Su questo romanzo fiume che racconta la realtà – la guerra, i bombardamenti, le leggi razziali – ma non è un romanzo realista. O meglio, lo è nel modo di Morante. Perché anche qui la pagina si strappa e vengono fuori sogni, crisi epilettiche, pensieri oscuri: «L’invisibile vocio si andava avvicinando e cresceva, anche se, in qualche modo, suonava inaccessibile quasi venisse da un luogo isolato e contaminato». E anche qui c’è una madre: che fugge, di continuo, fugge e pensa ai suoi figli. Una madre che sa fare tutto e non sa fare niente, capisce tutto e non capisce niente.
Oltre un milione di copie vendute; 600mila in pochi mesi. Il mondo intellettuale si abbatte furibondo contro di lei. È un libro che si è venduto al pubblico, dicono, che non tiene conto degli anni in cui è scritto: gli anni di piombo. Barilli, Balestrini, Rossana Rossanda («Mi si lasci dire: Grazie, no», scrive Rossanda, «Vender patate è meglio che vender disperazione»), Pasolini e molti altri la stroncano. Pasolini con rabbia crescente. Nel ’64, dedicandole Poesia in forma di rosa, le aveva scritto: «A Elsa, terrificante e magnifica lettrice». Adesso ne La storia vede un «diligente e geniale ron ron della sua scrittura di Manierista Onnisciente», dice che l’autrice è incapace di amare i suoi personaggi, di creare per loro una psicologia, e che Morante abusa di un umorismo maldestro. La loro amicizia non si recupererà mai più. Pasolini sarà ucciso un anno dopo. Nessuno sa con precisione se Elsa sia andata o meno al suo funerale. Alcuni dicono che c’era, solissima, lontana, altri che inveiva contro il morto, che era stato uno dei suoi più grandi amici. Natalia Ginzburg, Goffredo Fofi, Anna Maria Ortese sono tra i pochi ad amare La storia. «Non ho letto prima», le scrive Ortese, «perché volevo essere sola col mio giudizio. Non le do il mio indirizzo, perché spero che non mi ringrazi. Siamo già tanto umiliati da immagini false e scambi di grazie o inchini. Il mio omaggio a Lei, almeno, sia libero».
Ora Morante si ritira in un silenzio e in una solitudine da cui non uscirà mai più. Elsa dagli occhi bellissimi, che ha sempre avuto orrore della vecchiaia, viene presa da quest’ultimo fantasma. Poco dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo, Aracoeli, scopre di essere malata. Apre il gas. Tenta il suicidio. La salvano. La malattia la consuma. Lei non parla quasi più con nessuno. Sogna di continuo sua madre. «Ho sognato», scrive, «tutta la notte mia madre, alta alta, vestita di marrone, e non aveva simpatia per me». E ancora: «Mia madre stanotte aveva più compassione di me, è sempre alta alta». Muore nel 1985. La vestono con un abito semplice, in stile messicano, bianco con dei ricami colorati. Moravia: «E poi l’ho accompagnata al cimitero dove aveva scelto di essere cremata. E allora penso che sia svanita nell’aria, così. Hanno gettato, me lo hanno detto, le sue ceneri nel mare di Procida, l’isola di Arturo, dove lei ha attinto l’ispirazione – però, il romanzo, non l’ha scritto sull’isola, ma a Roma, sotto i miei occhi».