Tuttolibri, 19 marzo 2022
Intervista a Randa Jarrar
Se fosse una canzone italiana della fine del secolo scorso, Randa Jarrar sarebbe Rossetto e cioccolato. Dell’immensa Vanoni, questa scrittrice nata a Chicago da padre palestinese e madre egiziana ha sia l’audacia che l’ironia: cresciuta in Kuwait e costretta dallo scoppio della Guerra del Golfo a tornare con la famiglia negli Stati Uniti, Jarrar, 43 anni, è autrice dei racconti Io, lui e Mohammed Ali appena usciti in Italia, un romanzo (A Map of Home), un memoir (Love Is An Ex-Country) e almeno un paio di bufere che l’hanno ricoperta di odio sui social e che, una volta passate, l’hanno lasciata più forte di prima. Oggi insegna alla California State University di Fresno e quando la vedo, labbra rossissime e occhi lampeggianti in una stanza inondata dal cielo di Los Angeles, mi sembra una Sheherazade (che poi era anche il titolo di quell’album di Ornella) che vuole «lasciarsi vivere totalmente».
Per Victor Hugo la libertà incominciava dall’ironia. La sua ironia, invece, dove inizia?
«Penso dal fatto di essere per metà palestinese e per metà egiziana, due popoli che dividono un confine che non può essere attraversato. In questo io ci trovo qualcosa di ironico. Per me l’ironia è umorismo e l’umorismo è un modo intelligente di criticare le cose. Un altro, che gli artisti hanno usato anche più spesso, è la tragedia, ma io preferisco l’ironia perché per me la tragedia è troppo pigra».
Nelle sue storie, il viaggio e la geografia hanno un ruolo primario. Come mai?
«Sono attratta dai personaggi in movimento, quelli che non solo non possono rimanere nello stesso posto a causa di ragioni geopolitiche, ma che spontaneamente scelgono di non rimanerci. I miei personaggi sono nomadi all’incessante ricerca di qualcosa, non necessariamente di se stessi, ma di una comunità, di un tipo di utopia alternativa a cui sperano alla fine di arrivare».
In una raccolta, il primo e l’ultimo racconto hanno una funzione quasi programmatica. Lei ha scelto gli unici due che avevano elementi di realismo magico, “L’eclisse dei lunatici” e “La vita, gli amori e le avventure di Zelwa la mezza”. Perché?
«Nel mio lavoro io mi propongo di reimmaginare che cosa significa essere umani, che per me è qualcosa di magico e va al di là di quelle che crediamo essere le nostre capacità naturali. In particolare, queste due storie hanno al centro l’amore romantico, che è una costruzione borghese, ma che è anche trasformativo. Trasformare è esattamente ciò che voglio che i libri facciano, perciò ci tenevo che il lettore entrasse e uscisse da questo libro attraverso la magia, che è quella capacità di mostrare un mondo che non è esattamente il nostro, ma per il quale possiamo lottare».
La masturbazione femminile appare molto spesso nelle sue storie.
«Per me è un argomento molto importante perché darsi piacere è una delle capacità più incredibili che abbiamo in quanto esseri umani. Mentre, per via dello sguardo maschile della cultura, solitamente è l’autoerotismo delle persone che hanno un pene quello a essere più apprezzato, io trovo che il tipo di cose di cui è capace una clitoride sia incredibile. E se continua a essere un tabù è perché si suppone che le donne non siano esseri umani completi: pensare che possano provare un piacere che non viene dal fare shopping, dal prendersi cura di una famiglia o dall’essere una buona moglie, madre o figlia è quasi inimmaginabile. Un’altra caratteristica della masturbazione è che è e rimarrà sempre gratis, in un mondo nel quale vogliono farci pagare per qualsiasi cosa. Non le sembra una cosa rivoluzionaria?».
Lei si definisce queer. Quanto la questione del gender ha influenzato il suo lavoro?
«Penso abbia plasmato tutto della mia vita, quindi anche quello che faccio. Non mi considero necessariamente una donna, ma una femme, che mette il rossetto in casa anche quando non deve vedere nessuno. Anche questo fa parte di quello che sono, in una cultura che trova che le femme, le donne, le persone trans e le “checche” siano da aborrire, e che vorrebbe che cambiassimo e ci allineassimo alla cultura tradizionale. Per quanto mi riguarda, non si tratta di un atto di ribellione, ma di un certo disagio nei confronti dell’eterosessualità come stato normale e normativo. Non ci può essere un solo stato normativo semplicemente perché non c’è un solo modo di essere».
Nel 2018 ha ricevuto numerose minacce via social per avere definito la madre di George W. Bush, Barbara, che era appena morta, «una generosa, intelligente e incredibile razzista che, assieme a suo marito, aveva cresciuto un criminale di guerra». Si è mai pentita di averlo fatto?
«Non solo non me ne sono pentita, ma trovo che quel periodo della mia vita, per quanto doloroso e spaventoso, sia stato anche meraviglioso. Sentivo di avere in qualche modo vinto io, perché tutti, i media in primis, anche quelli che mi criticavano, continuavano a ripetere ossessivamente le mie parole. Mi sono sentita potente, ascoltata».
Nel racconto “Persa nella maledetta Yonkers”, ambientato nel 1996, la protagonista dice: “Non c’è un singolo libro di una donna araba nella biblioteca del mio college”. Le cose oggi sono migliorate?
«Per fortuna. Allora però era molto difficile per una studentessa come me trovarsi rappresentata nei libri che erano a disposizione della maggioranza delle persone. Ho voluto raccontare quella lotta».
Oggi che è lei a insegnare Scrittura creativa, quali sono le indicazioni che dà ai suoi studenti?
«Di cercare quante più esperienze possibili – libri, lingue, luoghi – e di comportarsi come una spugna: trattenere un sacco di materiale e poi tramutarlo in arte. Ma poi aggiungo anche che essere una spugna può significare a volte farsi male, perché si finisce per assorbire anche le cose negative. Il mio consiglio per non rimanere bloccati dalla sofferenza, allora, è di prendersi cura di sé facendo costantemente un lavoro di trasmutazione».
Uno dei suoi personaggi dice una cosa molto interessante sul matrimonio: che nessuna persona, anche la migliore, potrà mai cambiare un’istituzione che è fondamentalmente patriarcale.
«Ho divorziato due volte, perciò credo che quel pensiero mi sia arrivato dalla mia esperienza personale: mi sono resa conto che, anche quando il mio stipendio e il mio livello di istruzione erano più alti rispetto a quelli del mio coniuge, non sono mai stata in una posizione di potere e questo semplicemente per il fatto che non ero un uomo cisgender. Sono profondamente convinta che il matrimonio sia stato creato per beneficiare gli uomini e, guardandosi intorno, è chiaro che non sia una istituzione che giova a tutti».
Ho letto che qualche tempo fa si è messa alla ricerca della casa appartenuta alla sua famiglia in Palestina e di quella di quando vivevate in Kuwait. Che significato hanno avuto quelle esperienze?
«Prima di tutto sono state una forma di viaggio nel tempo, un recuperare sensazioni fisiche, ma anche parti spirituali di me stessa e dei miei antenati. Un tentativo, anche, di prendermi cura del mio io decenne durante la guerra Iraq-Iran, o dell’io bambino di mio padre in un villaggio fuori Janine. Un modo per raggiungere una specie di pace».
C’è un posto che può chiamare casa oggi?
«Sì. Il mio corpo, prima di tutto, e poi Los Angeles. Los Angeles, per me, è la città più incredibile che esista. Non la considero nemmeno americana perché ha un clima mediterraneo, è piena di gente di ogni tipo ed è molto gioiosa. È un posto in cui tutti, da chi crea un abito a chi monta una telecamera, sono sempre al servizio della creazione di una storia. E per me, questo è il posto perfetto dove stare».