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 2022  marzo 19 Sabato calendario

Intervista a Paola Farinetti

Organizzatrice teatrale e di eventi culturali, compagna di Gianmaria Testa, mai convenzionale Il padre fu comandante partigiano, il fratello Oscar è il fondatore di Eataly: “La timidezza e il dubbio di propormi in maniera sbagliata mi hanno fatto desiderare una quieta normalità”
Mi attende alla stazione di Torino e mi porta ad Alba, dove è nata nel 1967. Paola Farinetti è una donna che mi appare determinata ma anche inquieta e fragile per quel tanto che forse serve a scuotere la molta concretezza che è in lei. Può essere brusca e dolce, distante e prossima, svagata e precisa, adolescenziale e matura. Oscilla tra polarità che mi incuriosiscono. Tanto più dopo aver letto il suo libro ( Tuffi di superficie) che la strappa dalle ombre della vita e la mette in una luce di onesta drammaticità.
Ad Alba ceniamo e poi il giorno dopo mi porta nella casa di Beppe Fenoglio dove si sta organizzando il centenario della nascita. Penso, mentre giro per le stanze nelle quali visse lo scrittore, al destino di Pavese, a quel fallimento emblematico che fu il suo suicidio. Fallimento – è convinzione di Giorgio Manganelli – con cui si aprì la letteratura del dopoguerra.
E penso al successo di Fenoglio, alle sue mitologie resistenziali, al modo diametralmente opposto dell’uso del mito e della lingua rispetto a Pavese. Ecco, Paola Farinetti scrive in prossimità di questi due scrittori, e di due luoghi tra Alba – la città dove ha vissuto – e Torino dove è andata a vivere insieme al figlio oggi sedicenne: «Dovevo prendere una certa distanza dalle mie radici, senza però allontanarmene eccessivamente, amo troppo le mie origini per cancellarle. La scrittura mi ha aiutata a mettere a fuoco le cose importanti, a fare un certo ordine nella mia vita».
Non hai una scrittura contabile.
«Lo so, lo spero. Non è una scrittura di numeri, di concatenazioni. Semmai una scrittura “raccontabile”, fatta di analogie che sono come onde che si urtano e si dileguano. Qualcosa che ha a che vedere con l’acqua. Prima di diventare, in un certo senso, una scrittrice, sono stata una brava nuotatrice».
C’è una relazione tra le due cose?
«Forse sì. Forse risiede nell’arte di fendere la vita come si fende l’acqua. So che non è semplice. Anzi l’acqua come la scrittura può essere pericolosa.
Racconto di una mia vicenda in cui ho rischiato di annegare. E mi sono salvata solo perché a un certo punto, più per istinto che per ragionamento, mi sono lasciata andare. È così anche per il mio modo di scrivere. Fare meno resistenza possibile».
Ti sei scoperta scrittrice, prima che facevi?
«Sono un’organizzatrice teatrale e di eventi culturali con la Fondazione Mirafiore che dirigo.
Ovviamente il teatro è una parte fondamentale per la mia vita».
Non hai pensato di recitare?
«Non ho i mezzi fisici e mentali, non so giocare con la finzione, non indosso maschere. Il bianco è bianco, il nero è nero. Ma so riconoscere le sottili sfumature e la grazia metamorfica che un interprete mette nella propria recitazione».
Hai cominciato con il teatro perché?
«Mi sono laureata a Torino in Storia del Teatro. Ero indecisa tra Petrolini e Ruggero Ruggeri. Alla fine ho scelto quest’ultimo. Aveva un vezzo un po’ d’annunziano, ma la cosa che mi colpiva era l’assoluta libertà con cui interpretava un testo. Fu uno degli ultimi grandi attori capace di prescindere dalla regia. C’era lui sulla scena.
Punto. Tu sai che la parola “regista” fu coniata da Bruno Migliorini nei primi anni Venti. Prima non esisteva. E senza il nome, la professione valeva poco. Dopo la laurea sono tornata ad Alba e ho fatto insieme a Carlin Petrini e ad altri un giornale che si chiamava Tanaro 7».
Di che cosa ti occupavi?
«Curavo le pagine culturali, ma il giornale, posizionato a sinistra, era un osservatorio quotidiano sulla nostra provincia. L’ho fatto per quasi quattro anni poi, siccome non era più economicamente indipendente, fu venduto e a quel punto ho cominciato a lavorare per il Teatro sociale di Alba, dove sono stata anche direttrice.
Niente di eclatante, però oltre a essermi divertita ho cercato di mescolare vari linguaggi: teatro, musica, poesia, immagini. Oggi è abbastanza normale ma negli anni Novanta in provincia la cosa suonava originale».
Fammi un esempio.
«C’è uno spettacolo che ha compiuto dieci anni, ha girato nei teatri di tutta Europa con grande successo. Ha un titolo spiazzante La Merda: una donna nuda sulla scena, interpretata da Silvia Gallerano, recita un monologo potente, scritto da Cristian Ceresoli. E poi mi viene in mente Guarda che luna, in cui un gruppo di artisti tra i quali Stefano Bollani, la Banda Osiris, Gianmaria Testa rileggono il mito di Fred Buscaglione. Mi piace fare cose poco convenzionali, ma che abbiano o possano aspirare al gradimento del pubblico».
Ti senti o sei poco convenzionale?
«Diciamo che mi sono sentita a lungo ai margini.
Forse perché volevo essere bella e percepivo di non esserlo. La timidezza e il dubbio di propormi in maniera sbagliata, a un certo punto mi hanno fatto desiderare la quieta normalità. Anche se poi scopri che la normalità può essere drammatica.
C’è un episodio angoscioso per me difficile da cancellare».
Ti riferisci all’episodio del prete.
«È una cosa strana e dolorosa, da cui ho cercato di scappare, ma poi improvvisamente ti accorgi che stai scappando nella stessa direzione della cosa.
Paradossale, no? Insomma sono a una cerimonia in chiesa, e seduto a un banco, accanto ad altri preti, lo vedo; e come una frustata il mio pensiero torna indietro di tanti anni, a quella notte in campeggio in cui quel giovane prete provò a insidiarmi. Credeva che dormissi e ha cominciato a sfiorarmi e poi la mano è scivolata nella mia parte bassa».
Non hai provato a reagire?
«Ero solo una bambina e non sapevo nulla di queste cose. Nessun genitore ti avvertiva di stare attenta agli estranei. La stessa parola pedofilia non esisteva. Restai immobile, come se dormissi. Ma avevo il cuore che esplodeva. Poi, come quando nel sonno ti giri, mi sono voltata da un lato del letto verso il muro e ho serrato le cosce. A quel punto ho sentito lui andarsene».
Nel rivederlo, dopo così tanti anni, cosa hai provato?
«La vergogna, la frustrazione e il silenzio di allora si sono trasformati in un bisogno di liberazione. Ho provato a raccontare quel rimosso che, nella scura luce di una chiesa, tornava imperioso alla mia mente. Quanto a lui ho avvertito pena e sgomento all’idea che avrei potuto denunciarlo o magari piazzarmi davanti, guardarlo negli occhi invecchiati e stanchi e dirgli: ti ricordi di me? Ti ricordi quella notte? E invece me ne tornai a casa con mio figlio assalita da una tristezza semplice e immensa».
In “Tuffi di superficie” parli molto di tuo padre e quasi per niente di tuo fratello Oscar.
«Ad Oscar accenno soltanto. Per me è una figura imprescindibile e credo che il nostro sia un rapporto molto intenso. Parlarne in modo esteso avrebbe significato proiettare la sua figura pubblica sul mio mondo privato, con il rischio di invadere ogni angolo del mio racconto. Quanto a mio padre è stata una figura importante per Alba: un capo partigiano, un eroe. Non mi è facile parlare di lui. Non aveva studiato, ma gli piacevano enormemente i libri e i giornali. Mi ha insegnato a leggere, è stato quello che ha traghettato la famiglia da una condizione modesta a una ricchezza acquisita, desiderata, ma senza ostentazione e senza l’ossessione del profitto a ogni costo. Un uomo insomma solido e importante. E ricordo una cosa strana, anzi surreale che accadde alla fine».
Cosa?
«Pochi giorni prima che morisse in ospedale, eravamo stretti intorno a lui e prima di congedarci, abbiamo canticchiato, si fa per dire, Finché la barca va. Sembravamo degli idioti. Con lui che sorrideva e che pareva guardarci da una terra lontana. Non so come e perché quel motivetto popolare si sia infilato tra noi. Mi sembrò un modo per farci forza, per scherzare con la morte, nell’idea che la canzone fosse il piccolo tappeto volante su cui si posa il lato magico o forse improbabile della vita».
A proposito di canzoni e di cantanti hai condiviso un lungo tratto di strada con Gianmaria Testa.
«Ho avuto nella mia vita varie storie, quella con Gianmaria è stata la Storia, quella cosa che ti cambia dentro e che non pensi ti possa riaccadere.
C’eravamo conosciuti sul lavoro. Poi è nato un legame attraverso la scrittura. Fino a quel momento avevo pensato che fosse facile per me scrivere ma difficile condividere. E invece. Ogni giorno un fax, allora si comunicava così, con la data e il nome del santo e un pensiero. Quando ci siamo messi insieme ho raccolto quei fogli in un libretto e gli ho detto: ti regalo un anno della nostra vita immaginata. Era felice, stupito e io orgogliosa per quel dono improvviso che gli facevo».
Come è stato il vostro rapporto?
«Intenso, simbiotico all’inizio, poi ci siamo sposati abbiamo avuto un figlio e le prime incrinature.
Fino a una crisi che non avevamo previsto. Né voluto. Non il tradimento, ma la distanza: i suoi concerti lontani e io a casa a badare al bambino e poi il mio lavoro. Eravamo come entità finite su pianeti diversi. E quando finalmente scendevamo sulla Terra non riuscivamo più a capirci. È stato un periodo tremendo. Finalmente una sera ci siamo tolti l’armatura. È bastato un gesto e poche parole per ritrovare il senso e il desiderio delle prime volte, riscoprire le ragioni profonde che ci avevano uniti. E poi, qualche mese dopo il nostro ritrovarsi, Gianmaria si è ammalato di cancro. Ed è morto che io non avevo ancora 48 anni e lui 57 compiuti.
Contabilità strana e ho pensato che non si è né giovani né vecchi. Si è soltanto soli con in mano il filo reciso di un grande amore, fatto di passione intensa, profonda e di litigi rabbiosi».
Mi hai detto prima di questa conversazione che il tuo libro è composto di due parti: prima e dopo Gianmaria. Ora che cosa è diventato questo dopo?
«Dovrei parlarti di dettagli, di gesti quotidiani, del fatto, lo so è buffo, che non amo la parola “vedova”, ci leggo il vuoto, l’assenza di qualcosa o di qualcuno e poi mi fa sentire più vecchia di quello che sono. Ci sono parole penose, che non squillano, che la gente tende a rimuovere o a pronunciare in modo sbagliato. Io stessa so che attraverso la voce le mie parole rischiano di uscire confuse. E ho come la sensazione di rovinare tutto. Per questo preferisco scrivere: mettere una distanza tra il pensiero e la parola che cade sulla pagina. E allora tutto si fa più chiaro e ordinato nella mia testa».
Hai bisogno di questa chiarezza?
«In questo momento sì. Ho bisogno di poter leggere tra le pieghe della mia normalità, comprendere che cosa sto facendo e perché. Sono a volte bizzosa, dura, scontrosa, battagliera. Tratti di un carattere che andrebbero smussati. Ma alla fine siamo quello che siamo e aggiungo che mi va bene così. Anche perché non ho mai rinunciato all’idea che le cose non finiscono e che noi siamo il risultato di tutto quello che si è riusciti a conservare: i vestiti, i pensieri, i libri, gli sguardi, i dolori, le facce, la gioia. La vita va avanti, mi dico.
Ed è per questo che mi è difficile accettare la parola fine».