Corriere della Sera, 19 marzo 2022
Intervista a Dante Spinotti
A scuola «non ero bravo, avevo solo una gran passione per la fotografia. Iniziata presto, a dodici anni in casa avevo la camera oscura ed ero il fotografo ufficiale della squadra di calcio del paese, Lendinara, in provincia di Rovigo». Se Dante Spinotti è diventato «il maestro della luce», uno dei più stimati direttori della fotografia al cinema, in Italia e a Hollywood, se ha lavorato a titoli come Heat – La sfida, L’ultimo dei Mohicani, L.A. Confidential, accanto a registi come Michael Mann e Curtis Hanson, Ermanno Olmi, molto è dovuto a quella passione giovanile per la macchina fotografica e alla poca voglia di studiare qualsiasi altra cosa.
Ora, a 78 anni, quella passione rimane intatta. «Sto girando un documentario su Napoli e poi ho in progetto un film sul senatore americano John Louis, attivista dei diritti civili negli anni Sessanta».
A Los Angeles, dove vive, riceverà nel corso di «L.A. – Italia Film Festival» il premio «L.A. Legend award».
«Mi piacciono i premi. Questo poi ancora di più perché sono gli italiani a darmelo. Un premio è veder riconosciuto il proprio lavoro, la propria passione».
Che è iniziata in Kenya.
«Ci sono arrivato a 17 anni. I miei genitori non sapevano cosa farmi fare e così mi spedirono da uno zio che laggiù faceva il regista di film di attualità e documentari. Vissi a Nairobi per un anno e fu la mia fortuna. A quei tempi poca gente in Italia parlava l’inglese e io forte di quell’esperienza trovai lavoro in Rai. Viaggiai in America con Enzo Biagi, facemmo grandi reportage, mandavano me perché sapevo la lingua».
Poi però si licenziò e andò a Roma, Cinecittà.
«Sì, fu un rischio, avevo già famiglia, due figli, ma andò bene. Fui chiamato da Sergio Citti e così iniziò la mia carriera da libero professionista».
Poi l’America.
«Dino De Laurentiis mi chiamò. La sua casa di produzione allora era in Carolina. Devo molto a Dino che mi introdusse al mondo del cinema americano».
La prima esperienza fu con il film «Manhunter – Frammenti di un omicidio», era il 1986.
Il regista Michael Mann
Ad un certo punto mi disse di levare quel faro grosso che avevo messo alle spalle. Era il sole
«Il regista era Michael Mann, uno straordinario maestro di cinema, con un linguaggio cinematografico molto suo e molto avanzato».
Poi titoli leggendari come «The Insider», «L.A. Confidential».
«Ricordo una ripresa in notturna, per L’ultimo dei Mohicani. Michael Mann non voleva fermarsi ma stava facendo giorno e così io, per nascondere la luce che sorgeva, aumentavo i fari sulla scena. Ad un certo punto mi disse di levare quel faro grosso che avevo messo alle spalle. Era il sole».
È cambiato molto il suo mestiere?
«Sì, con l’avvento del digitale. Ora è molto più immediato. Prima i risultati li vedevi il giorno dopo, quando la pellicola veniva sviluppata. Giro con la mia Laika al collo».
Prima c’era bisogno di un Dante Spinotti alla fotografia di un film, ora possono farlo tutti? È così?
«La creatività è sempre necessaria e quella non ha scorciatoie. Se in passato era importante l’esperienza oggi lo è di più il talento. Quello che conta davvero è il tuo contributo narrativo e non dipende dalla tecnologia».
E la televisione?
«Ho curato la fotografia di qualche prima puntata di serie tv (Prison Break, per esempio, ndr). È divertente, privilegia la rapidità. Io non le guardo le serie tv ma mia moglie sì, al pc. Ha passato la vita accanto a uno che cerca di creare immagini importanti e lei le guarda al computer. Dice che è più rilassante».
All’Oscar c’è andato vicino due volte, per «L.A. Confidential» e «The Insider», e ora i premi tecnici saranno tagliati dalla diretta televisiva. Cosa ne pensa?
«Già una volta ci avevano provato, io ho avuto la fortuna di far parte per tre anni del consiglio direttivo dell’Academy. Allora ci furono proteste e la decisione fu revocata, ora staremo a vedere. Certo è che gli Oscar sono un riconoscimento a tutte le professioni del cinema. L’America è maestra in questo».