Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 19 Sabato calendario

Alex, il ragazzo che ha passato le ultime due settimane in una cantina di Mariupol è salvo

Giovedì 10 marzo, a più di una settimana dall’inizio dell’assedio di Mariupol, Alex era riuscito a trovare una qualche onda per inviare un messaggio Telegram al Corriere. Scriveva: «Io e la mia famiglia passiamo la vita seduti in cantina… la gente ha saccheggiato tutto, persino quel che non gli serviva per sopravvivere… ci sono lunghe code per l’acqua… quando poi si sparge la voce che il Municipio ha cotto il pane, la gente resta in coda anche con il rischio delle bombe perché ha fame…». Quel messaggio era un raro squarcio di luce sulle condizioni dell’assedio, ma anche lo sguardo stupito di un ragazzo del XXI secolo davanti all’inconcepibile che doveva affrontare: bombe, fame, freddo.
Alex ha 23 anni ed è un designer digitale. Aveva accolto la possibilità di lavorare con un giornalista straniero con l’impegno di chi è abituato a fare le cose con scrupolo. Dopo quel messaggio, però, il silenzio. Sui suoi account neppure la spunta della consegna. Prigioniero con 300 mila altri nella città ridotta al tempo delle caverne. Dopo sette giorni di buio, ieri Alex è arrivato a Zaporizhzhia con la famiglia. Salvo. «Sto cercando di riscoprire che sono umano – è il suo saluto —. Non è facile dopo tanto tempo in cui la mia vita non valeva nulla».
Nessun compiacimento, nessuna supponenza da Rambo. «Ho rischiato davvero di morire una sola volta. Per il resto, come tutti, solo tantissima paura».
Nel ricordo è come se ci fossero stati due periodi nell’assedio: la prima settimana in cui c’era ancora cibo nei frigoriferi spenti e si sentivano i cannoni sempre più vicini. E una seconda, in cui il cibo era solo patate e scatolette e le bombe non erano più solo d’artiglieria, ma quelle più spaventose dell’aviazione.
Una seconda famiglia
Fino al giorno prima erano persone che incontravi in ascensore senza ricordarne il nome, poi sono diventati una seconda famiglia: abbiamo messo in comune ogni cosa
«Tutto il condominio era nelle cantine. All’inizio ci spaventava il rombo dei cannoni, poi abbiamo capito che non arrivavano sino a noi e, in qualche modo, ci siamo calmati. Mangiavamo come per una scampagnata, tutto quello che stava andando a male. Nei primi giorni si mantenevano certe forme di cortesia, di rispetto sociale, poi via via si sono formati dei gruppetti di tre, quattro famiglie interessate solo a sopravvivere. Fino al giorno prima erano vicini di casa che incontravo in ascensore senza neanche ricordarne il nome, poi sono diventati una seconda famiglia. Abbiamo messo in comune tutto ciò che avevamo. Il mio e il tuo hanno smesso di esistere. Di esclusivo c’era solo una piccola borsa con i documenti e qualche oggetto di valore, ma il resto era nostro: cibo, acqua, fuoco, la forza per tagliare la legna, l’auto per andare alla fontana o al fiume. Mio padre aveva l’automobile da offrire, mia madre lo spirito. Lei parlava, ricuciva, spiegava, confortava».
In cantina, il tempo per pensare non mancava.
«Abbiamo razionato le scorte. Anche quando a noi si è aggiunta una zia, la figlia e il loro gatto non ci sono stati problemi a dividere. Il loro palazzo in via Mir era stato colpito. Via Pace, ironico, era una delle più chic di Mariupol, ora solo una delle più bollenti. La fame stava al suo posto, senza disturbare. Quando ce ne siamo andati, avevamo ancora patate e scatolette per resistere almeno altre 2 settimane».
La salvezza
Al primo check point ucraino dopo i tantissimi russi: «Da dove venite?»
«Mariupol»
«Via via, andate»
Purissima gioia. Il gatto si è spaventato
per le nostre urla
«Poco dopo aver mandato quel messaggio al Corriere, il momento più brutto. Ho scoperto che una cosa è sentire una bomba da dentro il rifugio, un’altra è mentre sei fuori, all’aperto. Ero andato a cercare la linea telefonica e stavo tornando. Da una parte avevo un lunghissimo palazzo chiuso, dall’altra un parco vuoto. Ho sentito il rumore del jet e mi sono paralizzato. Il rombo dell’aereo fa paura, mi hanno insegnato che hai pochi secondi per ripararti in un androne, ma lì non avevo rifugi. Un soldato ucraino mi ha scosso urlandomi da lontano di ripararmi contro un muretto. Ho fatto in tempo ad accucciarmi che ho visto l’onda d’urto trasformare in materia molle pietre e mattoni agitandoli come una bandiera. In una frazione di secondo i vetri si sono gonfiati come bolle di sapone, allo scoppio ho sentito tutto il rumore che non avevo sentito prima. La bomba era caduta a 4-500 metri».
«Mariupol non esiste più, un palazzo sì e uno no del centro è danneggiato o bruciato. Non so se basteranno 20 anni per riavere la città che era un mese fa. È morta, perché restare?» Dopo l’incubo, la felicità della salvezza. «È successo al primo check point ucraino dopo i tantissimi russi. Da dove arrivate? Mariupol. Via via, andate. Purissima gioia. Il gatto si è spaventato per le nostre urla».