la Repubblica, 19 marzo 2022
Intervista a Mika
«Ho 38 anni, fra un anno e mezzo ne avrò 40. Allora voglio un uragano di attività. Invece di diminuire voglio aumentare». Mika è inarrestabile.
Era in pieno tour mondiale quando arrivò il primo lockdown e fermò tutto. «Il Covid mi ha dato la possibilità non solo di essere presente quando mia madre stava morendo, ma anche in qualche modo di… guarire. Questa idea della guarigione del cervello è quasi un tabù. Ho avuto l’opportunità di sistemare il mio cervello. O di lasciare che si sistemasse da solo.
Quindici anni di vita pubblica fottono la mente. Il successo, il fallimento, l’arte, l’egoismo… Lavoro da quando avevo otto anni».
Era un gioco a quell’età?
«No, no, era un lavoro. Se metti un bambino a cantare davanti a tremila persone e gli dai un assegno quel bambino maturerà molto velocemente. Mi buttarono fuori da scuola perché ero un disastro, allora mia madre mi disse: “Ok, lavorerai e imparerai dalla vita”. Pochi mesi dopo cantavo alla Royal Opera di Londra nell’opera di Strauss La donna senza ombra. È ripartito tutto così dopo che per sette-otto mesi avevo dimenticato come leggere e scrivere».
Per un trauma?
«Sì, una storia complicata. Ci eravamo trasferiti dalla Francia in Inghilterra, mio padre era stato preso come ostaggio nella prima guerra del Golfo (banchiere, era in un viaggio di affari, ndr) e quando tornò era diverso. Perdemmo tutto.
E poi a scuola avevo un’insegnante violenta, psicologicamente e fisicamente. Il cervello si spense un po’ alla volta. Prima ero brillante, diventai un idiota».
In questi due anni quindi ha avuto modo di rallentare e fare un bilancio.
«No, di non fare niente. Che è la cosa più potente al mondo».
C’era il rischio che non tornasse la voglia di fare?
«Chi se ne frega. Ma è tornata, per la gioia di farlo, non per la paura. A maggio dello scorso anno sono entrato in studio da solo. Mi sono messo al pianoforte e ho iniziato con un ritmo alla Steve Reich. Poi ho aggiunto un’altra cosa fino a un loop di otto pianoforti: così ho costruito una casa per il primo pezzo. E ho cominciato a recitare e a urlare come un pazzo. “Ti chiedi a volte dove va il sole, ti chiedi a volte dove vanno i ragazzi la notte, ti chiedi perché esci sempre dal mio letto prima che l’amore si metta fra di noi”. Uno stato euforico, come se la musica fosse una droga».
E adesso ha mille cose da fare.
«Ora vado in studio a Parigi per l’album, poi dai Berberi con una 4x4 per registrare musiche per la colonna sonora di un film francese, poi a Boston per la preproduzione per il tour americano, poi le arene in Canada, poi al festival di Coachella, quindi a Rabat, poi un nuovo video, a Torino per Eurovision e poi di nuovo con gli arrangiatori per la parte sinfonica del film. E quindi al matrimonio di mio fratello».
E un tour italiano, The Magic Piano, in partenza da Verona il 18 e 19 settembre, con doppie date in ogni città, Firenze, Bari, Milano, Roma: la prima a teatro e la seconda in un’arena.
«Suonerò anche brani nuovi. Questa dualità mi permette di esprimere i due aspetti della mia musica. Un concerto solo con il piano e un grande show spettacolare. Due serate che si parlano tra di loro, con un racconto, non autobiografico ma alla fine si parla anche della mia vita perché come tutti gli artisti sono un po’ autoreferenziale».
Intanto l’Eurovision Song Contest, a maggio a Torino.
«Mi esibirò anche e sto pensando a una performance provocatoria. Sarà una sorpresa. Eurovision non è soltanto uno show, è come un’Expo ma concentrato in pochi giorni».
Meglio cantare o presentare?
«È uguale. Devi sempre pensare a quello che arriva alla gente a casa. È quello che faccio anche seduto al tavolo di X Factor: devi essere al servizio della persona sul divano davanti a uno schermo».
Ha mai pensato di gareggiare
all’Eurovision?
«Non è mai capitato. Però ci sono cose dell’Eurovision che mi piacciono tantissimo. In Inghilterra è sempre stata una serata sacra, prima in famiglia, poi al pub con troppe birre».
Presenterà con Alessandro Cattelan e Laura Pausini.
«Con Ale mi faccio grandi risate. Laura è una grandissima lavoratrice. Quando ho organizzato il concerto benefico per il Libano “I love Beirut” l’ho chiamata 24 ore prima e le ho detto: “Se ti procuro il Colosseo ci vai?”. Mi ha detto subito sì e ha lavorato fino alle quattro del mattino. Mi sento molto onorato di fare parte di questo trio perché non sono italiano ma l’Italia e la sua cultura musicale e televisiva mi sono entrate nel cuore.
Ho sempre difeso l’idea di Europa.
Pur avendo passaporto americano.
Anche l’epoca dell’Illuminismo e di Victor Hugo è stata possibile grazie all’apertura dei confini. I tempi più bui dell’Europa sono stati quando hanno alzato muri. Non a caso la scenografia dell’Eurovision avrà un sole al centro, una grande luce, idea di Francesca (Montinaro, ndr). Un concetto bellissimo».
Americano, libanese, inglese, ma anche un po’ italiano, francese: per chi tifa?
«Sono neutrale, non posso esprimere preferenze. Nei brani ci sono tantissimi suoni orientali.
Anche nel nuovo pezzo dell’Ucraina, è una sorta di rap bizantino».
Giusto escludere la Russia? «Non avevano scelta, considerando quello che sta succedendo. In una situazione estrema una decisione andava presa. Ci sarà tutta l’Europa, delegazioni di tutti i paesi, come si fa a far finta di niente quando c’è tanta violenza?».
Ha pensato di organizzare un concerto per la pace?
«È presto. In piena crisi è difficile dire: andiamo a cantare. Ho sempre paura quando un artista comincia a predicare opinioni sociali o politiche. Cosa può fare il mondo della musica non lo so, so però che deve raccontare la crisi umanitaria e questi grandi spostamenti. È una sfida gigante per l’Unhcr, un’organizzazione che conosco bene e che sta facendo tantissimo.
C’è sempre il rischio che tutte queste storie umane diventino solo statistiche e ci dimentichiamo degli individui. Il nostro compito è provocare empatia».