il Giornale, 19 marzo 2022
Billy Wilder giornalista
L’Europa degli anni Venti del Novecento è un crocevia di destini ignoti. Samuel Wilder, che all’epoca si faceva chiamare Billie, era uno di questi. Un giovanotto di belle speranze sui vent’anni il quale non sapeva che farsene della vita. Un secolo fa il futuro regista di A qualcuno piace caldo e Prima pagina scriveva recensioni e piccole storielle surreali ed esilaranti. E interviste ambiziose: per esempio ad Asta Nielsen, acclamata attrice del muto non sopravvissuta artisticamente alla nuova frontiera del sonoro, e al miliardario americano Cornelius Vanderbilt junior. E il ritratto di Erich von Stroheim, in cui il giovane e sconosciuto Wilder racconta un mito del grande schermo, un modello da «odiare», senza sapere che in Viale del tramonto, un quarto di secolo dopo, lo avrebbe diretto lui stesso nella parte del maggiordomo di una diva al crepuscolo. E ancora, il principe di Galles e futuro Edoardo VIII, dandy e playboy tra moda e vacanze, e perfino... una strega.
Inviato speciale – Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre (La nave di Teseo, pagg. 272, euro 20) è questo e molto altro e ci mostra Billy Wilder prima che diventasse Billy Wilder. L’occasione sono i due decenni dalla morte del regista, avvenuta il 27 marzo 2002 negli Stati Uniti, dove era riparato per sfuggire all’avvento del nazismo. Dalle pagine di questa antologia di articoli esce il profilo di un autore che mostra già le sue qualità e la predisposizione a scovare il lato ironico di ciò che accade. In questa prospettiva si spiega la figura esilarante di una sorta di fattucchiera, mezza maga e mezza imbrogliona, che spilla soldi ai ricconi per realizzare i loro sogni di maledizioni da inviare a destra e a manca.
Il giovane Wilder era già allora quello che sarebbe diventato. Uomo attento e sensibile alle pieghe della vita che non lesina spunti da commedia. La settima arte era ancora lontana dalle sue ambizioni che presero forma a Berlino, da dove poi fuggì. Tuttavia era già entrata in punta di piedi nella sua vita, attraverso brevi e lapidarie recensioni che raccontavano un film e i suoi attori, lasciando in disparte ogni sorta di aggressività, a favore di giudizi equidistanti e sereni.
Fra le tante, è magistrale la parte in cui azzarda una ricetta su come fare un film. Buon sangue non mente e per ogni nazionalità – francese, giapponese, spagnola e americana – spunta un elenco di ingredienti dal forte sapore caricaturale. Un esempio. «Montmartre. Una mansarda lercia. Tre vetri rotti. Un pittore americano squattrinato. Il monte di pietà. Una tempesta di neve. Quattordici metri di Champs Élysées. Una graziosa modella francese. Una fogna. Una grata difettosa. Notre Dame. Il Bois de Boulogne e un cartello, Tre anni dopo».
Billy Wilder, studente a Vienna e giornalista a tempo perso, mostrava i segni di un futuro di cui nemmeno lui conosceva i contorni. Fu persino ballerino da sala, uno di quelli che intascano qualche moneta per rallegrare le serate nei ristoranti. Esperienza che durò poco e finì con una lettera di referenze lusinghiere. Siamo intorno al ’26 e ci sarebbero voluti quattro anni perché il set diventasse la sua casa. Accadde a Berlino, dove era giunto al seguito del jazzista Paul Whiteman del quale era uno scatenato fan. Solo nel 1930 il cinema diventò un lavoro. Il primo passo fu il documentario Uomini di domenica, sul tempo libero dei berlinesi, girato con Robert Siodmak con il quale avrebbe poi lavorato per L’uomo che cerca il suo assassino.
Vennero anni tragici. Nel 1933 Hitler conquistò il potere e Billy Wilder capì subito che si annunciavano tempi durissimi. Prima che la situazione arrivasse alle estreme conseguenze, lasciò l’Europa. Nel 1934, passando per la Francia, riuscì a raggiungere gli Stati Uniti che lo avrebbero poi naturalizzato, lasciandogli quel cognome di madrelingua tedesca che si leggeva facilmente anche in inglese, limitandosi a sostituire con un’anglosassone «y» le ultime due lettere dell’originario Billie. La sua perspicacia lo premiò, ma gli lasciò un dolore. L’intera famiglia non ebbe la sua sorte e finì negli infernali gironi di Auschwitz.
Per lui l’approdo Oltreoceano significò il successo e la celebrità imperitura. Sette Oscar e titoli che fanno parte di una filmografia che ha fatto la storia della commedia, grazie anche all’inossidabile sodalizio con il suo sceneggiatore di fiducia, I.A.L. Diamond. Dalla collaborazione nacquero opere indimenticabili e soprattutto battute e trovate strepitose, come quell’immortale «Nessuno è perfetto» che conclude A qualcuno piace caldo. Oggi scolpita sulla sua stessa lapide nel cimitero di Los Angeles, dove riposa da quel 27 marzo 2002 quando una polmonite se lo portò via a 95 anni.